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«Sai ben poco» mi disse Siri. Procedeva a piedi, scalza, nelle pozzanghere lasciate dalla marea. Ogni tanto raccoglieva una delicata conchiglia di corno da caccia, la esaminava in cerca di difetti, la lasciava cadere di nuovo nell’acqua torbida.

«Sono stato addestrato bene» risposi.

«Sì, sono certa che ti hanno addestrato bene» convenne Siri. «So che sei abilissimo, Merin. Ma sai ben poco.»

Irritato, senza sapere che cosa rispondere, continuai a camminare accanto a lei a testa bassa. Scalzai dalla sabbia una pietra lavica bianca e la tirai lontano nella baia. Nubi gonfie di pioggia s’addensavano all’orizzonte orientale. Mi trovai a desiderare di essere ancora sulla nave. Questa volta ero stato riluttante a tornare; adesso capivo d’avere sbagliato. Era la mia terza visita su Patto-Maui, la nostra Seconda Riunione, come i poeti e la sua gente la definivano. Mi mancavano cinque mesi per compiere ventuno anni standard. Tre settimane prima, Siri aveva festeggiato i trentasette anni.

«Sono stato in un mucchio di posti che tu non hai mai visto» dissi alla fine. Sembrò una risposta petulante e infantile perfino alle mie orecchie.

«Oh, certo» disse Siri, e batté le mani. Per un secondo, nel suo entusiasmo, scorsi l’altra mia Siri… la giovane ragazza di cui avevo sognato durante i nove lunghi mesi d’inversione. Poi l’immagine tornò piano piano alla cruda realtà e vidi fin troppo bene i suoi capelli corti, il rilassamento dei muscoli del collo e dei tendini ora in rilievo su quelle mani un tempo amate. «Sei stato in posti che non vedrò mai» disse Siri in fretta. La voce era identica. Quasi. «Merin, amore mio, hai già visto cose che io non posso nemmeno immaginare. Probabilmente, dell’universo conosci più fatti di quanti io non posso nemmeno sognare. Ma sai ben poco, tesoro.»

«Di cosa diavolo parli, Siri?» Mi sedetti sopra un tronco per metà sommerso, sulla striscia di sabbia umida e sollevai al petto le ginocchia, quasi a formare una barriera fra noi.

Siri uscì dalle pozzanghere e venne a inginocchiarsi davanti a me. Mi prese le mani: anche se le mie erano più grosse, più pesanti, più rudi, sentivo la forza nelle sue. La ritenni la forza di anni che non avevo condiviso con lei. «Devi vivere, per conoscere davvero le cose, amore mio. Alón mi ha aiutato a capirlo. C’è qualcosa, nell’allevare un figlio, che aiuta ad acuire il senso di ciò che è reale.»

«Non puoi spiegarti meglio?»

A occhi socchiusi, per qualche secondo Siri guardò lontano da me e con aria assente si ravviò un ricciolo. Con la sinistra stringeva forte le mie mani. «Non sono sicura» disse piano. «Penso che si cominci a capire quali sono le cose davvero importanti. Non so come esprimerlo. Quando passi trent’anni a entrare in stanze piene di estranei, senti una pressione minore di quando avevi solo metà di quel tempo d’esperienza. Sai che cosa la stanza e la gente può avere in serbo per te, e te l’aspetti. Se non c’è, te ne accorgi subito e te ne vai per gli affari tuoi. Solo, sai di più su che cosa è, che cosa non è, e quanto poco tempo c’è per imparare la differenza. Capisci, Merin? Mi segui almeno un poco?»

«No» risposi.

Siri annuì, si morsicò il labbro inferiore, e per un po’ non parlò. Si sporse invece a baciarmi. Le sue labbra erano secche, sembravano quasi porre domande. Rimasi per un secondo a guardare il cielo al di là di lei, desiderando tempo per riflettere. Poi sentii la tiepida intrusione della sua lingua e chiusi gli occhi. Dietro di noi, la marea saliva. Sentii un calore piacevole e la reazione, mentre Siri mi sbottonava la camicia e mi passava sul petto le unghie appuntite. Ci fu un secondo di vuoto fra noi; aprii gli occhi in tempo per vederla sbottonare l’ultimo bottone sul davanti dell’abito bianco. I suoi seni erano più grossi di quanto ricordassi, più pesanti, con capezzoli più larghi e più scuri. L’aria era pungente. Le abbassai sulle spalle il vestito e mi strinsi a lei. Scivolammo dal tronco sulla sabbia tiepida. Stretto a Siri, mi domandai come potevo pensare che fosse lei la più forte. La sua pelle sapeva di sale.

Le mani di Siri mi aiutarono. I suoi capelli corti erano schiacciati contro il legno scolorito: cotone bianco e sabbia. Il cuore mi batteva più forte dei frangenti.

«Capisci, Merin?» mormorò Siri qualche secondo dopo, mentre il suo calore ci univa.

«Sì» sussurrai. Ma non capivo.

Mike diresse il tappeto verso Primosito. Ci volle più di un’ora di volo nel buio, e io passai quasi tutto il tempo rannicchiato per difendermi dal vento, e aspettandomi che da un momento all’altro il tappeto si piegasse e ci facesse precipitare nell’oceano. Mancava ancora mezz’ora di volo quando vedemmo la prima isola mobile. Le isole correvano davanti alla tempesta, con le albero-vele gonfie; provenivano dai pascoli meridionali in una processione all’apparenza infinita. Alcune erano vividamente illuminate e adorne di festoni di lanterne multicolori e dei cangianti veli di luce dei ragnatelidi.

«Sei sicuro che sia la strada giusta?» gridai.

«Sì» rispose Mike. Non girò la testa. Il vento mi soffiava sul viso i suoi lunghi capelli neri. Ogni tanto Mike controllava la bussola e correggeva un poco la rotta. Forse era più facile seguire le isole. Oltrepassammo una delle più grandi, lunga quasi mezzo chilometro; aguzzai la vista per scorgere i particolari ma, a parte il riflesso della scia fosforescente, l’isola era buia. Sagome scure tagliavano le onde lattee. Diedi un colpetto sulla spalla di Mike e tesi il braccio.

«Delfini!» gridai, indicandoli. «La colonia è stata fondata proprio a questo scopo, ricordi? Durante l’Egira, un gruppo di filantropi ingenui voleva salvare tutti i mammiferi degli oceani della Vecchia Terra. Ma non c’è riuscito.»

Avrei continuato, ma in quel momento scorsi il promontorio e il porto di Primosito.

Pensavo che le stelle fossero vivide, nel cielo di Patto-Maui. Pensavo che il pittoresco spettacolo delle isole migratorie fosse memorabile. Ma la città di Primosito, fra porto e colline, era un faro ardente nella notte. La sua luminosità mi ricordò una nave-torcia che avevo visto tempo addietro mentre creava la propria nova di plasma contro il lembo scuro di una fosca gigante gassosa. Primosito era un alveare a cinque piani di edifici bianchi, tutti illuminati all’interno da calde lanterne e all’esterno da un numero incredibile di torce. La pietra bianca della stessa isola vulcanica sembrava risplendere delle luci della città. Alla periferia c’erano tende, padiglioni, falò, fuochi per cucinare, e grandi roghi ardenti troppo grossi per servire a qualcosa se non a dare il benvenuto alle isole di ritorno.

Il porto era pieno di imbarcazioni: catamarani con campanacci appesi all’albero maestro; case galleggianti con lo scafo grande e la chiglia piatta, adatte a navigare senza fretta di porto in porto nelle calme secche equatoriali, ma quella notte orgogliosamente illuminate da file di lampadine; e occasionali yacht d’altura, snelli e funzionali come pescicani. Sull’estremità del corno della scogliera portuale un faro lanciava il suo raggio di luce lontano sul mare, illuminava onde e isole, poi tornava indietro a rivelare il colorato dondolio di imbarcazioni e persone.

Anche a due chilometri di distanza si sentiva un gran frastuono. I suoni di un festeggiamento arrivavano chiarissimi fino a noi. Sopra le grida e il costante mormorio dei frangenti si levavano le inconfondibili note di una sonata per flauto di Bach. Seppi in seguito che questo coro di benvenuto era trasmesso con alcuni idrofoni nei Canali di Passaggio, dove i delfini spiccavano balzi e capriole al suono della musica.

«Oddio, Mike, come sapevi che ci sarebbe stata festa?»