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«Ho domandato al computer principale della nave» rispose Mike. Il tappeto virò a destra per tenersi lontano dalle imbarcazioni e dal raggio del faro, poi curvò all’indietro, a nord di Primosito, verso un buio sputo di terra. Sentivo il morbido rimbombo delle onde contro le secche più avanti. «Fanno questa festa ogni anno» continuò Mike. «Ma ora si celebra il centocinquantesimo anniversario. La festa dura da tre settimane e andrà avanti per altre due. Sull’intero pianeta ci sono solo centomila coloni, Merin; ma sono sicuro che almeno la metà ci sta partecipando.»

Rallentammo, scendemmo con cautela e toccammo terra su un affioramento roccioso non lontano dalla spiaggia. La tempesta ci aveva mancati, a sud; ma lampi intermittenti e le luci lontane delle isole in arrivo segnavano ancora l’orizzonte. In alto, appena sopra l’altura davanti a noi, le stelle non erano oscurate dallo splendore di Primosito. Lì l’aria era più calda; sentivo nella brezza il profumo dei frutteti. Ripiegammo il tappeto e indossamo in fretta i costumi da arlecchino. Mike s’infilò nelle tasche capaci la penna laser e la bigiotteria.

«A cosa ti servono?» gli chiesi mentre mettevamo al sicuro, sotto un grosso masso, gli zaini e il tappeto.

«Questi?» disse Mike, facendo dondolare una collana di Rinascimento. «Sono denaro sonante, nel caso sia necessario procurarsi un favore.»

«Un favore?»

«Un favore» ripeté Mike. «La generosità di una signora. Qualche comodità per uno stanco spaziale. Un cantuccio per te, ragazzo.»

«Oh» dissi. Mi sistemai la maschera e il berretto da giullare. Nel buio i sonagli mandarono un lieve scampanellio.

«Su, vieni» disse Mike. «Non perdiamoci la festa.» Annuii e lo seguii, fra un tintinnio di campanelle, mentre ci facevamo strada fra sassi e cespugli verso la luce in attesa.

Siedo qui al sole e aspetto. Non so con certezza che cosa. Sento sulla schiena un tepore crescente: il sole del mattino, riflesso dalla pietra bianca della tomba di Siri.

La tomba di Siri?

Non ci sono nuvole. Alzo la testa e scruto il cielo socchiudendo gli occhi, come se potesse esserci la L.A. con il teleporter appena terminato. Non è possibile. Una parte di me sa che non si sono ancora alzati in volo. Una parte di me sa esattamente quanto tempo manca perché nave e teleporter passino sullo zenit. Una parte di me non vuole pensarci.

“Siri, faccio la cosa giusta?”

C’è un rumore improvviso di bandierine agitate dal vento. Intuisco, più che vedere, l’irrequietezza della folla in attesa. Per la prima volta dall’atterraggio per la nostra Sesta Riunione, questa, sono addolorato. No, non sento dolore, non ancora, ma una tristezza acuta che presto diventerà rimpianto. Per anni ho portato avanti mute conversazioni con Siri formulando a me stesso domande per future discussioni con lei, e all’improvviso mi rendo conto con fredda chiarezza che mai più ci siederemo insieme a parlare. Dentro di me comincia a crescere un vuoto.

“Devo lasciare che accada, Siri?”

Non c’è risposta, a parte il crescente mormorio della folla. Fra qualche minuto manderanno sulla collina Donel, il mio figlio più giovane e ancora in vita, o sua figlia Lira e il fratello, a sollecitarmi. Butto via il filo d’erbasalice. C’è una traccia d’ombra all’orizzonte. Potrebbe essere una nuvola. Oppure la prima delle isole, spinte dall’istinto e dalle tramontane primaverili a migrare nella grande striscia di secche equatoriali da cui erano partite. Non importa.

“Siri, faccio la cosa giusta?”

Non c’è risposta; e resta sempre meno tempo.

A volte Siri sembrava così ignorante da farmi star male.

Non sapeva niente della mia vita lontano da lei. Faceva domande, ma dubitavo che fosse interessata alle risposte. Ho passato molte ore a spiegarle la bellezza della fisica che permette l’esistenza delle spin-navi, ma non capiva. Una volta, dopo che mi ero dato un gran daffare per chiarire le differenze fra la loro antica nave coloniale e la Los Angeles, Siri mi sorprese domandandomi: «Ma perché ai miei antenati occorsero ottant’anni di tempo nave per arrivare su Patto-Maui, quando tu fai il viaggio in centrotrenta giorni?» Non aveva capito niente.

Siri aveva un senso della storia a dir poco penoso. Considerava l’Egemonia e la Rete dei Mondi allo stesso modo con cui un bambino vedrebbe il mondo fantastico di una leggenda piacevole ma piuttosto sciocca: in lei c’era un’indifferenza che a volte mi faceva arrabbiare.

Siri sapeva tutto, dei primi giorni dell’Egira… almeno per quanto riguardava Patto-Maui e i suoi coloni; di tanto in tanto se ne usciva con qualche divertente e antiquato modo di dire, ma non sapeva niente delle realtà post-Egira. Nomi come Garden e gli Ouster, Rinascimento e Lusus significavano poco, per lei. Se citavo Salmud Brevy o il generale Horace Glennon-Height, non aveva nessuna reazione.

L’ultima volta che la vidi, aveva settant’anni standard. Aveva settant’anni e non aveva mai… fatto viaggi interplanetari, usato un astrotel, assaggiato bevande alcoliche diverse dal vino; non si era mai interfacciata con un chirurgo empatico, non aveva mai varcato un teleporter, fumato uno spinello, ricevuto un aggiustamento genetico; non si era mai collegata a uno stim-sim; non aveva ricevuto un’istruzione scolastica formale, preso una medicina RNA, sentito parlare di gnostici Zen e di Chiesa Shrike; né volato su un qualsiasi velivolo, a parte un antiquato skimmer Vikken di proprietà della sua famiglia.

Siri non aveva mai fatto l’amore con nessuno, tranne che con me. O così aveva detto. E così credevo.

Fu durante la nostra Seconda Riunione, quella volta nell’Arcipelago, che Siri mi portò a parlare con i delfini.

Ci eravamo alzati ad ammirare l’alba. I piani più alti dell’albero-casa erano un posto perfetto per guardare il cielo che impallidiva e si trasformava in mattino. Increspature d’alti cirri si coloravano di rosa, poi il mare stesso sembrò fondersi mentre il sole galleggiava sopra l’orizzonte piatto.

«Andiamo a nuotare» disse Siri. La ricca luce orizzontale le bagnava la pelle e gettava la sua ombra a quattro metri sulle assi della piattaforma.

«Sono troppo stanco» risposi. «Più tardi.» Eravamo rimasti svegli per gran parte della notte a chiacchierare, a fare l’amore, a chiacchierare, a fare di nuovo l’amore. Nel bagliore del mattino mi sentivo vuoto e con un vago senso di nausea. Il lieve movimento dell’isola mi dava un pizzico di vertigine, mi faceva sentire distaccato dalla gravità come un ubriaco.

«No. Andiamo adesso.» Mi prese la mano per tirarmi con sé. Ero irritato, ma non mi opposi. Siri aveva ventisei anni, sette di più di quanti ne aveva avuti all’epoca della Prima Riunione; ma il suo comportamento impulsivo spesso mi ricordava la Siri ragazzina che avevo portato via dalla festa solo dieci dei miei mesi prima. La risata profonda e generosa era la stessa. Gli occhi verdi avevano lo stesso sguardo tagliente, quando si spazientiva. I lunghi capelli biondo rame non erano cambiati. Ma il corpo era maturato, si era riempito d’una promessa prima solo accennata. I seni erano ancora alti e sodi, quasi da adolescente, punteggiati nella parte superiore da lentiggini che lasciavano spazio a un candore così trasparente da lasciar scorgere una traccia azzurrina di vene. Ma, in qualche modo, diversi. Lei stessa era diversa.

«Vieni con me, o te ne resti qui imbambolato?» disse Siri. Si era tolta il caffetano, mentre uscivamo sul ponte inferiore. La nostra barchetta era ancora attraccata al pontile. In alto, le albero-vele cominciavano a schiudersi alla brezza del mattino. Negli ultimi giorni Siri aveva insistito per mettersi in costume da bagno, quando entrava in acqua. Ora non lo aveva. I suoi capezzoli s’indurirono nell’aria fresca.

«Non ci lascerà indietro?» le chiesi, dando un’occhiata di sbieco alle albero-vele che sbattevano. Nei giorni precedenti avevamo atteso le bonacce equatoriali di metà giornata, quando l’isola era ferma nell’acqua e il mare uno specchio lustro. Ora le liane del fiocco si tendevano, mentre le spesse foglie si gonfiavano al vento.