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Il disco traduttore si era spostato e pendeva sulla spalla di Siri. Allungai la mano per spegnerlo, ma mi trattenni, perché la risposta prese a ronzarmi impellente nelle orecchie.

manca Squalo/manca Squalo/manca Squalo/manca Squalo/Squalo/Squalo/Squalo.

Spensi il traduttore e scossi la testa. Non capivo. C’erano molte cose, che non capivo. Chiusi gli occhi, mentre Siri e io ci muovevamo al ritmo gentile della corrente e di noi stessi; intanto i delfini sciamavano lì intorno e la cadenza dei loro richiami assumeva il tono stridulo, triste e pacato, d’un antico lamento.

Siri e io scendemmo dalle colline e tornammo alla Festa, proprio prima dell’alba del secondo giorno. Per una notte e un giorno avevamo vagato fra le colline, mangiato con estranei nei padiglioni di seta arancione, fatto il bagno insieme nelle gelide acque dello Shree, danzato alla musica che non smetteva mai di raggiungere la fila infinita delle isole di passaggio. Eravamo affamati. Mi ero svegliato al tramonto e avevo scoperto che Siri era sparita. Tornò prima che sorgesse la luna di Patto-Maui. Mi disse che i suoi genitori erano andati via con degli amici per alcuni giorni in una lenta casa galleggiante. Avevano lasciato a Primosito lo skimmer di famiglia. Allora passammo di ballo in ballo, di falò in falò, fino al centro della città. Intendevamo volare a ovest, nella tenuta della sua famiglia vicino a Fevarone.

Era tardi, ma nel parco di Primosito si attardava ancora un bel po’ di gente. Ero molto felice. Avevo diciannove anni e mi ero innamorato e la gravità di Patto-Maui, 0,93 g, mi sembrava minore di quanto non fosse in realtà. Avrei potuto volare, se avessi voluto. Avrei potuto fare qualsiasi cosa.

Ci eravamo fermati a un chiosco per comprare focaccine fritte e tazze di caffè nero. All’improvviso mi colpì un pensiero. «Come sapevi che sono un marinaio?» le domandai.

«Zitto, amico Merin. Mangia la tua povera colazione. Poi alla villa ti preparerò un pasto vero.»

«No, dico sul serio» replicai; con la manica del tutt’altro che pulito costume da arlecchino mi tolsi dal mento una macchia di grasso. «Stamattina hai detto che ieri notte hai capito subito che venivo dalla nave. Come mai? Per il mio modo di parlare? Per il costume? Mike e io ne abbiamo visti altri, vestiti come noi.»

Siri rise e si lisciò i capelli. «Ringrazia il cielo che sono stata io a scoprirti, Merin, amore mio. Fosse stato mio zio Gresham o i suoi amici sarebbero stati guai.»

«Ah. Ma perché?» Presi un’altra ciambella e Siri pagò. La seguii tra la folla che diventava più rada. Nonostante il movimento e la musica tutt’intorno, cominciavo a sentirmi stanco.

«Sono Separatisti» disse Siri. «Di recente zio Gresham ha sostenuto davanti al Consiglio che dobbiamo combattere, non lasciarci inghiottire dalla vostra Egemonia. Ha detto che dovremmo distruggere quel vostro teleporter, prima di esserne distrutti.»

«Sì?» dissi. «Ha spiegato come intendeva farlo? Per quanto ne so, voi non avete navi interplanetarie.»

«No, e non le abbiamo più da cinquant’anni» disse Siri. «Ma questo dimostra fino a che punto i Separatisti possono essere irrazionali.»

Annuii. Il capitano Singh e il consigliere Halmyn ci avevano informati dei cosiddetti Separatisti di Patto-Maui. «Il solito gruppo di sciovinisti coloniali e di ritardati» aveva detto Singh. «È anche per questo che procediamo lentamente e cerchiamo di sviluppare il potenziale economico del pianeta prima di terminare il teleporter. La Rete dei Mondi non ha bisogno che questi zoticoni siano ammessi prima del tempo. Gruppi come i Separatisti sono un motivo in più per tenere lontano dai terricoli gli uomini dell’equipaggio e le squadre di costruzione.»

«Dov’è il tuo skimmer?» domandai. Il parco si stava svuotando in fretta. La maggior parte dei complessi aveva già messo via gli strumenti. Molte persone con addosso costumi vistosi russavano sull’erba o sui ciottoli, fra i rifiuti e le lanterne spente. Restavano solo piccole oasi di baldoria, gruppetti che danzavano lentamente al suono solitario d’una chitarra o che cantavano da avvinazzati. Vidi subito Mike Osho: un buffone vestito da arlecchino che da un pezzo aveva perso la maschera e teneva a braccetto una ragazza per parte. Tentava di insegnare la “Hava Nagilla” a un cerchio di ammiratori rapiti ma incapaci. Uno inciampava, e cadevano tutti. Fra le risate generali, Mike li incitava a rialzarsi e a cominciare da capo, saltellando goffamente al canto della sua voce da basso profondo.

«Eccolo lì» disse Siri. Indicò una corta fila di skimmer fermi dietro la Sala del Parco. Agitai il braccio in direzione di Mike, ma lui era troppo impegnato a stringersi alle due ragazze per notare me. Siri e io avevamo attraversato la piazza ed eravamo all’ombra del vecchio edificio, quando sentii il grido.

«Marinaio! Girati, figlio di puttana dell’Egemonia!»

Mi bloccai e mi girai di scatto stringendo i pugni, ma accanto a me non c’era nessuno. Sei giovanotti avevano sceso i gradini della tribuna coperta e si erano messi a semicerchio dietro Mike. Quello più avanti era alto, snello, di una bellezza sorprendente. Sui venticinque anni, aveva lunghi ricci biondi che scendevano sull’abito di seta cremisi che metteva in risalto il fisico. Nella destra reggeva una spada d’un metro che sembrava di acciaio temperato.

Lentamente Mike si girò. Anche da lontano vidi che si era fatto di colpo sobrio e che stava studiando la situazione. Le ragazze ai suoi fianchi e un paio di giovanotti del suo gruppo ridacchiarono come se qualcuno avesse detto una spiritosaggine. Mike badò a non perdere il sorriso da ubriaco. «Dice a me, signore?» replicò.

«Dico a te, figlio di baldracca dell’Egemonia!» sibilò il capo dei sei. Il bel viso era contorto in un ghigno.

«Bertol» mormorò Siri. «Mio cugino. Il figlio minore di Gresham.» Uscii dall’ombra. Siri mi trattenne per il braccio.

«È la seconda volta, signore, che si riferisce in maniera poco cortese a mia madre» disse Mike, con voce strascicata. «Mia madre o io l’abbiamo forse offesa in qualche modo? Se è così, le chiedo mille volte scusa.» Mike fece un inchino tanto profondo che i sonagli del berretto quasi toccarono terra. Alcuni del suo gruppo applaudirono.

«La tua presenza mi offende, brutto bastardo dell’Egemonia! Appesti l’aria, con la tua carcassa lardosa!»

Mike inarcò comicamente le sopracciglia. Accanto a lui, un giovanotto con un costume da pesce mosse la mano. «Oh, via, Bertol. È solo…»

«Taci, Ferick. Parlo a questo ciccione d’uno stronzo.»

«Stronzo?» ripeté Mike, sempre con le sopracciglia inarcate. «Ho attraversato duecento anni-luce per farmi chiamare ciccione d’uno stronzo? Non mi pare proprio che ne valesse la pena.» Si girò con grazia per districarsi dalle due donnine. In quel momento mi sarei unito a Mike, ma Siri mi si appese con forza al braccio supplicandomi senza successo. Quando riuscii a liberarmi, Mike sorrideva ancora, continuando a recitare la parte dello sciocco. Ma aveva infilato la mano nell’ampia tasca della camicia.

«Dagli la tua spada, Creg» disse Bertol, brusco. Uno dei giovani lanciò a Mike una spada dalla parte dell’elsa. Mike la guardò descrivere un arco e cadere con fracasso sui ciottoli.

«Non puoi fare sul serio» disse Mike, con una voce bassa, di colpo completamente sobria. «Stupido sterco di vacca! Credi davvero che mi batta a duello con te solo perché t’è venuta la fregola di fare l’eroe per questi bifolchi?»

«Raccogli la spada» gridò Bertol. «Altrimenti, perdio, ti faccio a pezzi qui su due piedi.» Fece un passo avanti. Il viso era stravolto dall’ira.

«Vaffanculo» disse Mike. Nella sinistra aveva la penna laser.

«No!» gridai. Corsi in piena luce. Penne del genere le usavano gli operai per marcare le travature in fibrolega.

Le cose precipitarono in un attimo. Bertol avanzò d’un altro passo e Mike quasi con noncuranza lo colpì con il raggio verde. Il colono gridò e fece un salto indietro: di traverso, sullo sparato della camicia di seta, era comparsa una linea nera e fumante. Esitai. Mike aveva regolato sul minimo la penna laser. Due amici di Bertol avanzarono: Mike li colpì agli stinchi. Uno cadde sulle ginocchia e imprecò, mentre l’altro saltellò via reggendosi la gamba e ululando di dolore.