Si era formata una folla. Tutti risero mentre Mike, con il berretto a sonagli, faceva di nuovo un’ampia riverenza. «La ringrazio» disse Mike. «Anche a nome di mia madre.»
Il cugino di Siri aveva la bava alla bocca. Mi aprii un varco fra la folla e avanzai fra Mike e il colono.
«Ehi, è tutto a posto» dissi. «Ce ne andiamo. Andiamo via subito.»
«Maledizione, Merin, togliti di mezzo!» disse Mike.
«È tutto a posto» ripetei girandomi verso di lui. «Sono con una ragazza che si chiama Siri e ha…» Bertol mi superò con un passo e fece un affondo. Con il braccio sinistro lo afferrai per le spalle e lo tirai indietro. Cadde pesantemente sull’erba.
«Oh, merda» disse Mike, arretrando di alcuni passi. Sembrava stanco e un poco disgustato, mentre si sedeva su un gradino di pietra. «Oh, Cristo!» disse poi sottovoce. In una delle toppe nere sul lato sinistro del costume da arlecchino c’era un taglio cremisi. Sotto i miei occhi, quello squarcio sottile si aprì e il sangue colò sul grosso ventre di Mike Osho.
«Cristo, Mike!» Strappai una striscia di camicia e cercai di fermare l’emorragia. Non riuscivo a ricordare le lezioni di pronto soccorso che ci avevano insegnato da cadetti. Mi toccai il polso, ma non trovai il comlog. Li avevamo lasciati sulla Los Angeles.
«Non è brutta, Mike» ansimai. «Solo un taglietto.» Il sangue mi colò sulla mano e sul polso.
«Basterà» disse Mike. La voce era tesa per il dolore. «Cristo! Una spada di merda! Ci credi, Merin? Abbattuto nel fiore degli anni da un merdoso coltellaccio uscito da una merdosa operetta da un soldo. Oh, Cristo, brucia!»
«Da tre soldi» dissi e cambiai mano. Lo straccio era zuppo di sangue.
«Sai, Merin, qual è il tuo maledetto guaio? Ci metti sempre i tuoi merdosi due soldi. Ahi!» La faccia gli diventò pallida, poi grigia. Abbassò la testa e prese a respirare pesantemente. «Al diavolo tutto, ragazzo. Andiamo a casa, eh?»
Lanciai un’occhiata da sopra la spalla. Bertol si stava allontanando lentamente con i suoi amici. Tutti gli altri giravano qua e là, sconvolti. «Chiamate un medico!» gridai. «Chiamate un’ambulanza!» Due giovanotti si lanciarono di corsa nella via. Non c’era segno di Siri.
«Un momento! Un momento!» disse Mike alzando la voce, come se si fosse scordato una cosa importante. «Un momento solo» disse. E morì.
Morì. Morte vera. Morte del cervello. Spalancò oscenamente la bocca, strabuzzò gli occhi fino a mostrare solo il bianco, e un attimo dopo il sangue smise di sgorgare dalla ferita.
Per qualche istante di follia maledissi il cielo. Vedevo la L.A. muoversi contro lo sfondo delle stelle che già svanivano; potevo riportare in vita Mike, se l’avessi raggiunta nel giro di qualche minuto. La folla arretrò, mentre urlavo e imprecavo alle stelle.
Alla fine mi girai verso Bertol. «Tu!» dissi.
Il giovane si era fermato all’estremità del parco. La sua faccia era color cenere. Mi fissava, muto.
«Tu!» ripetei. Raccolsi da terra la penna laser, la regolai sul massimo e avanzai verso il punto dove Bertol e i suoi amici erano fermi in attesa.
Nella confusione di grida e di carne bruciata che seguì, mi resi vagamente conto che lo skimmer di Siri si stava posando sulla piazza piena di gente soffiando polvere da tutte le parti, e lei mi stava ordinando di raggiungerla. Volammo via da quella luce e da quella follia. Il vento freddo mi soffiò dal collo i capelli fradici.
«Andiamo a Fevarone» disse Siri. «Bertol era ubriaco. I Separatisti sono un gruppo piccolo e violento. Non ci saranno ritorsioni. Starai con me finché il Consiglio non avrà concluso l’inchiesta.»
«No» dissi. «Qui. Atterra qui.» Indicai uno sputo di terra non lontano dalla città.
Nonostante le proteste. Siri atterrò. Lanciai un’occhiata al grosso sasso per assicurarmi che gli zaini fossero ancora lì, poi scesi dallo skimmer. Siri si allungò sul sedile e attirò la mia testa verso la sua. «Merin, amore» disse. Le sue labbra erano calde e aperte, ma non sentii niente. Ero come anestetizzato in tutto il corpo. Arretrai e con un gesto la mandai via. Lei si lisciò i capelli e mi fissò, gli occhi verdi pieni di lacrime. Poi lo skimmer si alzò, virò, e si diresse rapidamente a sud nella luce del primo mattino.
“Un momento solo” avrei voluto gridare. Mi sedetti su una pietra, mi afferrai le ginocchia e fui travolto dai singhiozzi. Poi mi alzai e scagliai di sotto, fra le onde, la penna laser. Tirai fuori gli zaini e ne svuotai per terra il contenuto.
Il tappeto volante era sparito.
Rimasi lì, troppo esausto per ridere o piangere o allontanarmi a piedi. Il sole si alzò, ed ero sempre lì. Ero ancora lì, quando, tre ore dopo, il grosso skimmer nero della Sicurezza Navale si posò silenziosamente accanto a me.
«Padre? Padre, si fa tardi.»
Mi giro e guardo mio figlio Donel, in piedi dietro di me. Indossa la veste azzurro e oro del Consiglio dell’Egemonia. La testa calva è arrossata e imperlata di sudore. Donel ha solo quarantatré anni, ma a me sembra molto più anziano.
«Per favore, padre» dice. Mi alzo, mi spazzolo via fili d’erba e polvere. Andiamo insieme alla tomba. Ora la folla si è avvicinata. La ghiaia scricchiola sotto i piedi della gente, che si muove a disagio. «Devo entrare con te, padre?» mi chiede Donel.
Esito, per guardare questo estraneo già vecchio che è mio figlio. C’è poco, di me e di Siri, in lui. Il suo viso è amichevole, florido, e teso per le emozioni della giornata. Intuisco in lui la schietta onestà che in certi individui prende il posto dell’intelligenza. Non posso fare a meno di paragonare questo calvo burattino d’uomo ad Alón… Alón dai ricci scuri, dai lunghi silenzi, dal sorriso ironico. Ma Alón è morto da trentatré anni, abbattuto in una stupida guerra che non aveva niente a che fare con lui.
«No» rispondo. «Vado da solo. Grazie, Donel.»
Lui annuisce e arretra. Le bandierine sbattono nel vento, sopra la testa della folla che arranca. Rivolgo l’attenzione alla tomba.
L’ingresso è chiuso da una serratura a impronta del palmo. Mi basta toccarla.
Negli ultimi minuti ho fantasticato di una cosa che mi salverebbe sia dalla crescente tristezza, sia dalla serie di eventi che ho evocato. Siri non è morta. Nell’ultimo stadio della malattia ha convocato i medici e i pochi tecnici rimasti nella colonia, che hanno ricostruito per lei una delle antiche sale d’ibernazione usate nelle navi coloniali di due secoli prima. Siri è soltanto addormentata. E inoltre, un anno di sonno le ha in qualche modo restituito la giovinezza. Quando la sveglierò, sarà la Siri dei nostri primi giorni, come la ricordo. Insieme usciremo alla luce del sole: quando i battenti del teleporter si apriranno, saremo i primi a varcarli.
«Padre?»
«Sì.» Faccio un passo, appoggio la mano sulla porta della cripta. Si sente un ronzio di motori elettrici e la bianca lastra di pietra scivola via. Chino la testa ed entro nella tomba di Siri.
«Maledizione, Merin, fissa quella fune prima che ti sbatta fuori bordo! Presto!» Eseguii in fretta. La corda bagnata era difficile da arrotolare e ancor più difficile da legare. Siri scosse la testa, con disgusto, e si sporse a legare con una sola mano una bolina.
La nostra Sesta Riunione. Tre mesi di ritardo per il suo compleanno. Più dì cinquemila persone avevano partecipato ai festeggiamenti. Il PFE della Totalità le aveva fatto gli auguri, con un discorso di quaranta minuti. Un poeta aveva letto i suoi versi più recenti. L’ambasciatore dell’Egemonia le aveva donato una pergamena e una nuova imbarcazione, un piccolo sommergibile azionato dalle prime celle a fusione ammesse su Patto-Maui.