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E ci sono altri due oggetti, nella scatola. Uno è il medaglione traduttore che abbiamo adoperato molto tempo fa. L’altro mi lascia letteralmente a bocca aperta.

«Ah, la puttanella!» dico. Le tessere vanno tutte a posto. Non riesco a trattenere un sorriso. «La cara puttanella cospiratrice!»

Accuratamente arrotolato, con i cavi elettrici collegati nel modo esatto, c’è il tappeto volante che Mike Osho acquistò per trenta marchi al Mercato Carvnel. Lascio lì il tappeto, sgancio il comlog, lo tolgo dalla scatola. Mi siedo a gambe incrociate per terra e toccò il diskey. Nella cripta la luce si affievolisce e all’improvviso Siri è qui davanti a me.

Non mi buttarono fuori, quando Mike morì. Potevano farlo, ma si astennero. Non mi lasciarono alla mercé della giustizia provinciale di Patto-Maui. Potevano fare anche questo, ma stabilirono diversamente. Per due giorni fui tenuto in cella e interrogato dagli agenti della Sicurezza e una volta dal capitano Singh in persona. Poi mi lasciarono tornare in servizio. Per i quattro mesi del lungo balzo di ritorno mi torturai con il ricordo dell’omicidio di Mike. Con il mio rozzo modo di fare, lo sapevo, avevo contribuito alla sua morte. Completai i turni, sognai i miei incubi, mi domandai se mi avrebbero congedato appena raggiunta la Rete. Potevano dirmelo, ma preferirono non farlo.

Non mi congedarono. Nei mondi della Rete avevo normali licenze, ma non permessi brevi fuori nave nel sistema di Patto-Maui. Inoltre mi diedero un rimprovero scritto e mi degradarono. Ecco quanto valeva la vita di Mike: un rimprovero scritto e una degradazione.

Presi la mia licenza di tre settimane come il resto dell’equipaggio ma, a differenza degli altri, non intendevo fare ritorno. Mi teleportai su Esperance e caddi nel classico errore dei marinai: fare visita alla famiglia. Due giorni nell’affollato bulbo residenziale furono sufficienti: mi trasferii su Lusus e mi godetti tre giorni a puttane nella Rue des Chats. Quando il mio umore peggiorò, mi teleportai su Fuji e persi gran parte dei marchi liquidi scommettendo sui combattimenti all’ultimo sangue dei samurai.

Alla fine mi teleportai a Stazione Homesystem per prendere la navetta che in due giorni portava i pellegrini al Bacino Hellas. Prima d’allora, non ero mai stato su Homesystem né su Marte, e neppure intendo tornarci; ma i dieci giorni trascorsi lì, a girare da solo nei corridoi polverosi e infestati del Monastero, servirono a rimandarmi sulla nave. E da Siri.

Di tanto in tanto lasciavo il labirinto di pietra rossa del megalito e me ne stavo con addosso solo la pelletuta e la maschera, su una delle innumerevoli terrazze di pietra a fissare il cielo e la pallida stella grigia che un tempo era stata Vecchia Terra. A volte pensavo ai coraggiosi e stupidi idealisti che si erano precipitati nel grande buio a bordo di navi lente e insicure, portando con sé con uguale fede e uguale cura embrioni e ideologie. Ma molte volte cercavo di non pensare. Molte volte mi limitavo a restare lì, nella notte viola, lasciando che Siri venisse da me. Lì nella Rocca del Maestro, dove il perfetto satori aveva eluso tanti pellegrini assai più meritevoli di me, raggiunsi la pace spirituale attraverso il ricordo del corpo di una donna-bambina non ancora sedicenne disteso accanto al mio, mentre la luce della luna si rifletteva sulle ali d’un tommifalco.

Quando la Los Angeles tornò allo stato quantico, andai con lei. Quattro mesi più tardi, fui contento di fare il mio turno con le squadre di costruzione, collegarmi al solito stim-sim e passare a letto le licenze brevi. Poi Singh mi convocò. «Stai per andare giù» mi disse. Non capii. «Negli ultimi undici anni, i terricoli ne hanno fatto una maledetta leggenda. Del casino che avete piantato tu e Mike Osho. C’è un intero mito culturale, costruito intorno alla tua piccola rotolata nel fieno con quella ragazza indigena.»

«Siri» dissi.

«Prepara i bagagli. Hai tre settimane a terra. Secondo gli esperti dell’ambasciatore, gioverai alla causa dell’Egemonia più scendendo sul pianeta che rimanendo a bordo. Staremo a vedere.»

Il pianeta era in attesa. La folla applaudiva. Siri agitava la mano in un gesto di saluto. Lasciammo il porto su un catamarano giallo; puntammo a sud-sudest, diretti all’Arcipelago e alla sua isola di famiglia.

«Ciao, Merin.» Siri si libra a mezz’aria nell’oscurità della sua stessa tomba. L’ologramma non è perfetto: ai margini è disturbato da una leggera nebulosità. Ma è proprio Siri… Siri come l’ho vista l’ultima volta: capelli grigi tosati più che tagliati, testa alta, i tratti segnati da ombre. «Ciao, Merin, amore mio.»

«Ciao, Siri» dico. La porta della tomba è chiusa.

«Mi spiace di non poter condividere con te la nostra Settima Riunione, Merin. L’aspettavo con ansia.» Siri esita, si guarda le mani. L’immagine tremola lievemente, il pulviscolo svolazza attraverso la sua figura. «Ho studiato con cura le parole da dire» continua lei. «Come dirle. Ragioni da addurre come giustificazioni. Istruzioni da dare. Ma ora so quanto sarebbe inutile. O le ho già dette e tu le hai ascoltate, oppure non resta niente da dire e il silenzio si adatterebbe meglio al momento.»

Con il passare degli anni, la voce di Siri è diventata ancora più bella. Possiede un’intensità, una calma, che possono nascere solo dalla conoscenza del dolore. Siri muove le mani, che scompaiono oltre il bordo della proiezione tridimensionale. «Merin, amore mio, quanto sono stati strani i nostri giorni di lontananza e di vicinanza! Quant’è bello e assurdo il mito che ci ha legati! Le mie giornate erano semplici battiti del cuore, per te. Ti odiavo, per questo. Eri lo specchio della verità. Se ti fossi visto in viso, all’inizio di ogni Riunione! Il minimo che avresti dovuto fare era nascondere lo sbigottimento… almeno questo potevi farlo, per me.

«Ma nella tua goffa ingenuità c’è sempre stato… qualcosa, Merin. Qualcosa che smentisce l’insensibilità e lo stupido egoismo con cui ti mascheri così bene. Una preoccupazione, forse. Un rispetto per la preoccupazione, se non altro.

«Merin, questo diario ha centinaia di voci… migliaia, purtroppo. Lo tengo da quando avevo tredici anni. Ma quando lo vedrai, tutte saranno state cancellate, tranne quelle che seguono. Addio, mìo amato. Addio.»

Spengo il comlog e resto in silenzio per un minuto. I rumori della folla si sentono appena, attraverso le spesse pareti della tomba. Tiro un respiro profondo e aziono il diskey.

Siri compare. È prossima alla cinquantina. Riconosco subito il luogo e il giorno in cui ha registrato questa immagine. Ricordo il mantello che indossa, il ciondolo d’anguillaria che le pende al collo, il ricciolo che le ricade anche ora sulla guancia da sotto il berretto. Ricordo tutto, di quel giorno. L’ultimo della nostra Terza Riunione: eravamo con alcuni amici sulle alture prospicienti Sterna Sud. Donel aveva dieci anni e cercavamo di convincerlo a scivolare con noi sul campo di neve. Piangeva. Siri si allontanò da noi ancor prima che lo skimmer atterrasse. Quando ne uscì Magritte, dal viso di Siri intuimmo che era accaduto qualcosa.

È quello stesso viso che ora mi fissa. Con aria assente Siri scosta un ricciolo ribelle. Ha gli occhi rossi, ma controlla la voce. «Merin, oggi hanno ucciso nostro figlio. Alón aveva ventun anni ed è morto. Eri così confuso, oggi, Merin. “Com’è potuto accadere un errore simile?” continuavi a ripetere. Non conoscevi realmente nostro figlio, ma ti ho letto in viso un senso di perdita, quando abbiamo avuto la brutta notizia. Merin, non è stato un incidente. Se nessun’altra registrazione sopravvive, se non capirai mai perché ho permesso a un mito sentimentale di regolare la mia vita… si sappia almeno questo: non è stato un incidente a uccidere Alón. Era con i Separatisti, quando è arrivata la polizia del Consiglio. Avrebbe potuto farla franca. Avevamo preparato insieme un alibi. La polizia gli avrebbe creduto. Ma lui ha preferito restare.