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Per tre ore abbiamo visto la fine del mondo. Due barre parascariche sono cadute, ma le altre otto continuano a funzionare. Tuk e io ce ne stiamo rincantucciati nella rovente grotta della nostra tenda, mentre le maschere osmotiche filtrano ossigeno fresco dall’aria surriscaldata e piena di fumo, consentendoci di respirare. Solo la mancanza di sottobosco e l’abilità di Tuk nel sistemare la tenda lontano da altri bersagli, e al riparo delle piante di besto, ci permettono di sopravvivere. Solo questo, e le otto barre di fibrolega, si frappongono fra noi e l’eternità.

«Sembra che resistano bene!» grido a Tuk, più forte dei sibili e degli scoppiettii, degli schianti e delle schegge della tempesta.

«Sono fatte per durare un’ora, forse due» brontola la mia guida. «Appena saltano, forse da un momento all’altro, siamo morti.»

Annuisco e sorseggio acqua tiepida dalla cannula della maschera osmotica. Se passerò la notte, ringrazierò sempre Iddio per avermi generosamente concesso d’assistere a questo spettacolo.

Giorno 87

A mezzogiorno di ieri, Tuk e io siamo usciti dal margine fumante di nordest della foresta di fuoco, ci siamo subito accampati sulla riva di un ruscello e abbiamo dormito diciotto ore filate per compensare le tre notti insonni e i due faticosi giorni di cammino senza un attimo di sosta in quell’incubo di fuoco e di cenere. Da qualsiasi parte guardassimo mentre ci avvicinavamo alla cresta a schiena d’asino che segnava il confine della foresta, c’erano baccelli e pigne esplosi a nuova vita per le diverse specie morte nella conflagrazione delle due notti precedenti. Cinque barre parascariche funzionavano ancora, anche se né io né Tuk avevamo voglia di sperimentarle per un’altra notte. L’ibrido sopravvissuto è crollato a terra, morto, nell’istante stesso in cui gli abbiamo tolto di groppa il pesante carico.

Stamane all’alba mi sono svegliato a un mormorio d’acqua corrente. Ho seguito il ruscello per un chilometro verso nordest, richiamato dal rumore che diventava sempre più intenso poi, all’improvviso, il corso d’acqua è scomparso.

La Fenditura! Avevo quasi dimenticato la nostra destinazione. Stamattina, inciampando nella nebbia, saltando da una roccia umida all’altra lungo il ruscello sempre più ampio, ho raggiunto l’ultimo macigno, ho ripreso l’equilibrio e ho visto sotto di me una cascata che precipitava per almeno tremila metri nella nebbia, nelle rocce e nel fiume sottostante.

La Fenditura non era stata provocata dal sollevarsi dell’altopiano, come nel caso del leggendario Gran Canyon di Vecchia Terra o dello Squarcio Planetario di Hebron. Nonostante gli oceani attivi e i continenti di tipo terrestre, dal punto di vista tettonico Hyperion è totalmente morto, più simile a Marte, a Lusus o ad Armaghast per l’assoluta mancanza di deriva continentale. E, come Marte e Lusus, Hyperion è afflitto dalle Grandi Glaciazioni, la cui periodicità però raggiunge i trentasette milioni di anni, a causa della lunga ellisse della stella nana binaria attualmente lontana. Il comlog paragona la Fenditura alla Vallis Marineris di Marte prima del terraforming, perché entrambe sono state provocate dall’indebolimento della crosta planetaria dovuto alle fasi periodiche di glaciazione e disgelo nel corso degli eoni, e al flusso di fiumi sotterranei come il Kans. Poi l’enorme crollo, che corre come una lunga cicatrice nella zona montagnosa del continente Aquila.

Tuk mi ha raggiunto sull’orlo della Fenditura. Ero nudo, per togliere dagli abiti da viaggio e dalla tonaca l’odore di cenere. Mi sono spruzzato d’acqua fredda e ho riso forte mentre gli echi del grido di Tuk rimbalzavano dalla Parete Nord, distante settecento metri. Per quanto pericolosamente esposti ritenevamo che la cornice rocciosa, che aveva sfidato la gravità per milioni di anni, avrebbe resistito ancora un poco, mentre ci bagnavamo, ci rilassavamo, gridavamo di gioia fino a diventare rauchi e ci comportavamo più o meno come bambini appena liberati dalla scuola. Tuk ha confessato di non avere mai attraversato tutta la foresta di fuoco e di non conoscere nessuno che l’abbia fatto in questa stagione; poi ha detto che avrebbe dovuto aspettare almeno tre mesi prima di fare ritorno, ora che gli alberi tesla cominciavano a diventare pienamente attivi. Non mi è sembrato molto dispiaciuto ed ero contento d’averlo con me.

Nel pomeriggio abbiamo trasportato un po’ alla volta il mio equipaggiamento, ci siamo accampati accanto al ruscello, a un centinaio di metri dalla cornice, e abbiamo ammucchiato le casse di flussoschiuma contenenti le apparecchiature scientifiche, riservandoci di fare un controllo il mattino seguente.

La sera faceva freddo. Dopo cena, appena prima del tramonto, ho tirato fuori la giacca termica e sono andato da solo fino alla cornice rocciosa, a sudovest del punto dove avevo incontrato per la prima volta la Fenditura. Da quella posizione favorevole, molto al di sopra del fiume, il panorama era memorabile. La nebbia s’alzava da invisibili cascate che precipitavano nel fiume sottostante, gli spruzzi si levavano in mobili cortine e moltiplicavano il sole al tramonto in una decina di sfere viola e in una ventina d’arcobaleni. Guardavo ogni spettro formarsi, alzarsi verso la cupola sempre più buia del cielo, morire. Mentre l’aria più fredda si assestava nelle fessure e nelle caverne dell’altopiano, e l’aria calda si precipitava verso il cielo sollevando una tempesta verticale di foglie, rametti e volute di nebbia, un suono emerse dalla Fenditura, come se il continente stesso chiamasse con la voce di giganti di pietra, con lo zufolio di enormi flauti di bambù, con organi di chiesa grandi come palazzi, con note chiare e perfette che andavano dal soprano più acuto al basso più profondo. Ho fatto delle congetture sull’effetto dei vettori di vento contro le scanalature nelle pareti di roccia, in eventuali caverne molto più in basso che costituivano grosse voragini nell’immota crosta, sull’illusione di voci umane che le armoniche casuali a volte generano, ma alla fine le ho messe da parte e mi sono limitato ad ascoltare la Fenditura che cantava il suo inno d’addio al sole.

Sono tornato alla tenda e al suo cerchio di lanterne bioluminose quando la prima salva di piogge meteoriche ha acceso il cielo e le lontane esplosioni della foresta di fuoco hanno increspato l’orizzonte meridionale e occidentale, come cannonate d’antiche guerre sulla Vecchia Terra pre-Egira.

Appena dentro la tenda, ho provato le bande lunghe del comlog, ma ho trovato solo statica. Anche ammesso che i primitivi satelliti di comunicazione al servizio delle piantagioni di fibroplastica possano trasmettere così lontano verso est, sospetto che ogni emissione, a parte il raggio dei laser più concentrati e degli astro-tei, sarebbe bloccata dalle montagne e dall’attività dei tesla. Su Pacem, pochi di noi nel monastero possedevano e portavano comlog personali, ma la sfera dati era sempre disponibile se avevamo bisogno di collegarci. Qui non c’è scelta.

Mi siedo e ascolto le ultime note del vento del canyon; guardo il cielo che nello stesso tempo si scurisce e s’infiamma, sorrido al russare di Tuk nel sacco a pelo fuori della tenda e mi dico: Se questo è esilio, esilio sia.