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«Oggi, Merin, sei rimasto impressionato dalle parole che ho rivolto alla folla… alla marmaglia… davanti all’ambasciata. Sappilo, marinaio. Quando ho detto: “Non è il momento di mostrare la vostra rabbia e il vostro odio”, intendevo dire proprio questo. Niente di più, niente di meno. Ma il giorno verrà. Verrà di sicuro. Il Patto non è stato preso alla leggera, in quei giorni conclusivi, Merin. E non viene preso alla leggera neanche adesso. Chi ha dimenticato sarà sorpreso, quando verrà il giorno: ma verrà di “sicuro.»

L’immagine svanisce e cambia; nell’istante della sovrapposizione, il viso di Siri ventiseienne compare sopra i (lineamenti della donna più anziana. «Merin, sono incinta. E così felice! Ormai sei via da cinque settimane e mi manchi davvero. Starai via dieci anni. Anche di più. Merin, perché non hai pensato d’invitarmi a venire con te? Forse non sarei venuta, ma mi sarebbe piaciuto che tu mi avessi anche solo invitata. Comunque sono incinta, Merin. I medici dicono che sarà un maschio. Gli parlerò di te, amore mio. Forse un giorno tu e lui navigherete per l’Arcipelago e ascolterete le canzoni del Popolo del Mare, come abbiamo fatto io e te in queste ultime settimane. Forse allora le capirai. Merin, mi manchi moltissimo. Ti prego, torna in fretta.»

L’immagine olografica sfarfalla e cambia. La sedicenne ha il viso arrossato. I lunghi capelli neri le ricadono sulle spalle nude e sulla vestaglia bianca. Parla in fretta, fra le lacrime. «Marinaio Merin Aspic, mi dispiace per il tuo amico… mi dispiace davvero… ma te ne sei andato senza dirmi neppure addio! Avevo grandi progetti sull’aiuto che ci avresti dato… su noi due… e non mi hai neppure detto addio. Non m’importa cosa ti accadrà! Puoi tornare ai tuoi alveari affollati e puzzolenti dell’Egemonia e lì marcire, per quel che mi riguarda. Non voglio più vederti, Merin Aspic, nemmeno se mi pagano. Addio.»

Mi gira la schiena, prima che la proiezione svanisca. Ora nella tomba è buio, ma l’audio continua per un secondo. Si sente una lieve risatina e la voce di Siri — non saprei dirne l’età — mi arriva per l’ultima volta. «Addio, Merin. Addio.»

«Addio» dico. Spengo il diskey.

La folla si divide, quando esco dalla tomba battendo le palpebre. La mia comparsa in ritardo ha rovinato la drammaticità dell’evento. Il sorriso che mi aleggia sulle labbra provoca mormoni furiosi. Gli altoparlanti portano fin sulla nostra collina i discorsi della cerimonia ufficiale, «…iniziando una nuova era di cooperazione» echeggia la voce ben modulata dell’ambasciatore.

Poso sull’erba la cassetta e tiro fuori il tappeto volante. La folla si avvicina a guardare, mentre lo srotolo. Il disegno è sbiadito, ma i fili di volo brillano come rame nuovo. Mi siedo al centro del tappeto e tiro accanto a me la scatola.

«…e altro seguirà, finché lo spazio e il tempo non saranno più ostacoli.»

La folla si ritrae, quando manipolo il disegno di volo e il tappeto s’innalza di quattro metri. Ora vedo al di là del tetto della tomba. Le isole tornano dall’Arcipelago Equatoriale. Le vedo, a centinaia, spinte a nord dalla brezza e dalla fame.

«Perciò, colonia di Patto-Maui, è con grande piacere che chiudo il circuito e ti do il benvenuto nella comunità dell’Egemonia dell’Uomo.»

Il sottile filo del com-laser cerimoniale pulsa allo zenit. Segue un applauso, la banda inizia a suonare. Guardo con gli occhi socchiusi il cielo, appena in tempo per cogliere la nascita d’una nuova stella. Una parte di me, in quel microsecondo, sa cos’è accaduto.

Per alcuni microsecondi il teleporter è entrato in funzione. Per alcuni microsecondi, tempo e spazio hanno smesso davvero di essere degli ostacoli. Poi la massiccia trazione della marea dell’anomalia artificiale ha innescato la carica di termite da me piazzata sulla sfera esterna di contenimento. La minuscola esplosione non è stata visibile ma, un secondo dopo, il campo di Swarzschild in espansione ne consuma il guscio, inghiotte trentaseimila tonnellate di fragile dodecaedro e cresce rapidamente a inglobare alcune migliaia di chilometri di spazio intorno a esso. E questo è visibile, magnificamente visibile, sotto forma di una nova in miniatura che brilla di luce abbagliante nel cielo azzurro e sereno.

La banda smette di suonare. La gente urla e corre al riparo. Ma non ce n’è motivo. Un’esplosione di raggi X si proietta all’esterno mentre il teleporter continua a crollare in se stesso, ma non è sufficiente a causare danni attraverso la ricca atmosfera di Patto-Maui. Una seconda scia di plasma diventa visibile, quando la Los Angeles aumenta la distanza tra sé e il piccolo buco nero in rapido decadimento. Il vento si alza e il mare s’infuria. Stanotte ci saranno maree bizzarre.

Vorrei dire qualcosa di profondo, ma non mi viene in mente nulla. E poi, la folla non è dell’umore adatto per ascoltare. Mi dico che fra le urla e le grida sento anche degli evviva.

Manipolo i disegni di volo e il tappeto si lancia velocemente sopra la scogliera e il porto. Un tommifalco, che si sta crogiolando sulle correnti calde del mezzogiorno, agita le ali spaventato.

«Lascia che vengano!» grido al falco in fuga. «Lascia che vengano! Avrò trentacinque anni e non sarò solo: vengano pure, se ne hanno il coraggio!» Abbasso il pugno e rido. Il vento mi spinge indietro i capelli e mi raffredda il sudore sul petto e sulle braccia.

Più calmo, ora, faccio il punto e stabilisco la rotta verso le isole più lontane. Non vedo l’ora di incontrare gli altri. Anzi, non vedo l’ora di parlare al Popolo del Mare, di dire che finalmente è tempo che lo Squalo venga negli oceani di Patto-Maui.

Più tardi, terminate e vinte le battaglie, quando il mondo sarà loro, parlerò di lei, canterò di Siri.

La cascata di luce proveniente dalla lontana battaglia spaziale non si era interrotta. Si sentiva solo il vento scivolare lungo le scarpate. Il gruppetto sedeva compatto, tendendo il collo per guardare l’antico comlog come se aspettasse dell’altro.

Non c’era più niente. Il Console tolse il microdisco e se lo mise in tasca.

Sol Weintraub strofinò la schiena della piccina addormentata e si rivolse al Console. «Lei non è certo Merin Aspic.»

«No» rispose il Console. «Merin Aspic morì durante la Rivolta. La Rivolta di Siri.»

«Come è entrato in possesso di questa registrazione?» domandò padre Hoyt. Sotto la sua maschera di sofferenza, si vedeva che era commosso. «Questa incredibile registrazione…»

«Me l’ha data lui» disse il Console. «Qualche settimana prima che fosse ucciso nella Battaglia dell’Arcipelago.» Fissò il viso che lo guardava senza capire. «Sono il loro nipote» spiegò. «Di Siri e di Merin. Mio padre, il Donel che Aspic cita, diventò il primo presidente del Consiglio Autonomo, quando Patto-Maui fu ammesso al Protettorato. In seguito fu eletto senatore e mantenne la carica fino alla morte. Avevo nove anni, quel giorno sulla collina accanto alla tomba di Siri. Ne avevo venti… abbastanza per unirmi ai ribelli e combattere… quando Aspic venne di notte nella nostra isola, mi prese da parte e mi proibì di unirmi alla loro banda.»

«Avrebbe combattuto?» domandò Brawne Lamia.

«Oh, sì. E sarei morto. Come un terzo dei nostri uomini e un quinto delle nostre donne. Come tutti i delfini e molte isole stesse, per quanto l’Egemonia abbia cercato di salvarne il maggior numero possibile.»

«Un documento commovente» disse Sol Weintraub. «Ma lei perché è qui con noi? Perché fa il pellegrinaggio allo Shrike?»

«Non ho terminato il mio racconto» disse il Console. «Ascoltate il resto.»

Mio padre era tanto debole quanto mia nonna era stata forte. L’Egemonia non attese undici anni locali per tornare: prima che fossero trascorsi cinque anni, le navi torcia della FORCE erano già in orbita. Mio padre rimase a guardare, mentre le navi costruite in fretta dai ribelli venivano spazzate via. Continuò a difendere l’Egemonia anche se stava assediando il nostro mondo. Mi ricordo di quando avevo quindici anni: un giorno, dal ponte superiore della nostra isola ancestrale, guardavo con la mia famiglia una decina d’altre isole bruciate, in lontananza, mentre con le loro cariche di profondità gli skimmer dell’Egemonia illuminavano il cielo. Al mattino, le onde erano grigie di delfini morti.