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Gli Ouster si misero in contatto con me per mezzo del mio astrotel personale; presi tre settimane di ferie, portai giù la mia nave in un posto isolato nelle vicinanze del mare d’Erba, andai all’appuntamento con la loro vedetta nei pressi della Nube di Oört, imbarcai il loro agente — una donna di nome Andil — e un terzetto di tecnici, e scesi a nord della Briglia, a pochi chilometri dalle Tombe stesse.

Gli Ouster non possedevano il teleporter. Passavano la vita in lunghi viaggi fra le stélle e osservavano la vita della Rete scorrere velocemente come un film o un ologramma azionato a velocità superiore. Erano ossessionati dal tempo. Il TecnoNucleo aveva dato all’Egemonia il teleporter e continuava a mantenerlo in efficienza. Nessuno scienziato umano, o squadra di scienziati, era riuscito a capirne il funzionamento. Gli Ouster provarono. Non ebbero successo. Ma dai tentativi falliti scoprirono vie nuove per manipolare lo spaziotempo.

Capirono le maree di tempo, i campi anti-entropici che circondano le Tombe. Non sapevano generare campi del genere, ma sapevano come proteggersi dal loro effetto e, in teoria, come abbatterli. Le Tombe e tutto ciò che vi era contenuto avrebbero smesso di procedere a ritroso nel tempo. Si sarebbero “aperte”. Lo Shrike si sarebbe liberato delle sue catene, quando non fosse stato più legato dalla vicinanza alle Tombe. E il contenuto di queste ultime, qualsiasi cosa fosse, sarebbe stato affrancato.

Gli Ouster erano convinti che le Tombe del Tempo fossero manufatti provenienti dal loro futuro e che lo Shrike fosse un’arma di redenzione in attesa che la giusta mano l’impugnasse. Il Culto Shrike vedeva il mostro come un angelo vendicatore; gli Ouster lo vedevano come un utensile di progettazione umana, inviato a ritroso nel tempo per liberare l’umanità dal TecnoNucleo. Andil e i tre tecnici erano venuti lì a fare prove e misurazioni.

«Non lo userete adesso?» domandai. Ci trovavamo all’ombra della costruzione chiamata Sfinge.

«Non subito» rispose Andil. «Quando starà per partire l’invasione.»

«Ma avete detto che occorrono mesi perché l’apparecchiatura funzioni» replicai. «Perché le Tombe si aprano.»

Andil annuì. Aveva occhi d’un verde scurissimo. Era molto alta e distinguevo sulla sua pelletuta le strisce sottili dell’esoscheletro elettronico. «Forse un anno, o anche di più» disse. «L’apparecchiatura provoca il lento decadimento del campo anti-entropico. Una volta iniziato, il processo è irrevocabile. Ma non lo attiveremo finché i Dieci Consigli non decideranno che l’invasione della Rete è necessaria.»

«Ci sono dubbi?»

«Dibattiti etici» rispose Andil. A qualche metro da noi, i tre tecnici coprivano con alcuni tèli mimetici l’apparecchiatura e la chiudevano in un campo di contenimento a codice. «Una guerra interstellare causerebbe la morte di milioni, forse miliardi di persone. Scatenare nella Rete lo Shrike comporterebbe conseguenze imprevedibili. Per quanto sia necessario colpire il Nucleo, si discute ancora su quale sia la via migliore.»

Guardai l’apparecchiatura e la valle delle Tombe. «Ma una volta attivata» dissi «è impossibile fare marcia indietro. Lo Shrike sarà scatenato: dovrete avere vinto la guerra per controllarlo.»

Andil sorrise appena. «Verissimo.»

Allora le sparai, e sparai ai tre tecnici. Poi scagliai lontano fra le dune mobili il laser Steiner-Ginn di nonna Siri; mi sedetti su una cassa di flussoschiuma vuota e piansi per diversi minuti. Poi mi diedi da fare: usai un comlog dei tecnici per entrare nel campo di contenimento, tirai via la protezione mimetica e misi in funzione l’apparecchiatura.

Non ci furono cambiamenti immediati. L’aria aveva la luce piena del tardo inverno. La Tomba di Giada brillava tenuemente, mentre la Sfinge continuava a fissare il nulla. Si udiva solo il fruscio della sabbia fra le casse e i cadaveri. Solo una spia accesa mostrava che l’aggeggio degli Ouster era in funzione… che aveva già funzionato.

Tornai lentamente alla nave, aspettandomi quasi che lo Shrike comparisse, augurandomi quasi che lo facesse davvero. Per più di un’ora rimasi sul balcone della nave a guardare le ombre che riempivano la valle e la sabbia che ricopriva i cadaveri lontani. Non c’era nessuno Shrike. Nessun albero di spine. Dopo un poco, suonai sullo Steinway un Preludio di Bach, chiusi la nave e mi sollevai nello spazio.

Mi misi in contatto con la nave Ouster e dissi che c’era stato un incidente: lo Shrike aveva preso gli altri quattro e l’apparecchiatura era stata accesa prematuramente. Anche nella confusione e nel panico, gli Ouster mi offrirono rifugio. Declinai l’offerta e diressi la nave verso la Rete. Gli Ouster non m’inseguirono.

Usai il trasmettitore astrotel per mettermi in contatto con Meina Gladstone e dirle che gli agenti Ouster erano stati eliminati. Le dissi che l’invasione era assai probabile, che la trappola sarebbe scattata secondo i piani. Gladstone si congratulò con me e mi richiamò in patria. Rifiutai. Le dissi che avevo bisogno di silenzio e di solitudine. Diressi la nave al mondo della Periferia più vicino al sistema di Hyperion — ben sapendo che il viaggio stesso avrebbe divorato il tempo — in attesa che iniziasse l’atto seguente.

Più tardi, quando da Gladstone in persona mi arrivò per astrotel la convocazione al pellegrinaggio, capii il ruolo che gli Ouster avevano previsto per me in quei giorni finali: gli Ouster, o il Nucleo, o Gladstone e le sue macchinazioni. Non importa più chi si considera padrone degli eventi. Gli eventi non ubbidiscono più ai padroni.

Il mondo come lo conosciamo è alla fine, amici miei, qualsiasi cosa ci accada. In quanto a me, non ho domande da fare allo Shrike. Non porto parole finali per lui o per l’universo. Sono tornato perché devo, perché questo è il mio destino. Ho sempre saputo che cosa dovevo fare fin da quando, bambino, tornavo alla tomba di Siri e giuravo vendetta contro l’Egemonia. Ho sempre saputo quale prezzo dovevo pagare, sia nella vita sia nella storia.

Ma quando arriverà il momento di giudicare, di capire un tradimento che si diffonderà come una fiamma per tutta la Rete e che porrà termine ai mondi, vi chiedo di non pensare a me — il mio nome non era neppure scritto sull’acqua, come avrebbe detto lo spirito del vostro poeta perduto — ma alla Vecchia Terra morta senza un valido motivo, ai delfini e alla loro carne grigia che secca e imputridisce al sole; vi chiedo di vedere, come ho visto io, le isole mobili senza più spazio dove andare, il pascoli distrutti, le Secche Equatoriali incrostate di piattaforme di trivellazione, le isole stesse soffocate da turisti vocianti e rompiscatole che puzzano di lozione UV e di spinelli.

O, meglio ancora, non pensate a niente di tutto questo. State fermi, come ho fatto io dopo aver azionato l’interruttore. Un omicida, un assassino, ma comunque orgoglioso, con i piedi fermamente piantati sulla mobile sabbia di Hyperion, che grida a testa alta e con il pugno alzato contro il cielo: «La peste su tutt’e due le vostre case!»

Vedete, ricordo il sogno di mia nonna. Ricordo come avrebbe potuto essere.

Ricordo Siri.

— È lei la spia? — gli chiese padre Hoyt. — La spia Ouster?

Il Console si fregò le guance e rimase in silenzio. Sembrava esausto, spento.

— Già — disse Martin Sileno. — PFE Gladstone mi ha avvisato, quando mi ha scelto per il pellegrinaggio. Me lo ha detto che c’era una spia.