Rialzò il viso. Aveva gli occhi rossi. — Questa cosa che ci ucciderà domani… la mia musa, colui che ci ha fatti, colui che ci distruggerà… ha viaggiato a ritroso nel tempo. Bene, che sia» Stavolta, che prenda me e lasci in pace Billy. Che prenda me e lasci terminare qui il poema, incompiuto per sempre. — Sollevò più in alto la bottiglia, chiuse gli occhi e la scagliò contro la parete opposta. Schegge di vetro rifletterono la luce arancione delle esplosioni silenziose.
Il colonnello Kassad gli si avvicinò, e con le lunghe dita toccò la spalla del poeta.
Per alcuni secondi la stanza sembrò scaldata da quel semplice contatto umano. Padre Lenar Hoyt si staccò dalla parete a cui era appoggiato; sollevò la destra, col pollice e il mignolo uniti e tre dita dritte, in un gesto che in qualche modo comprendeva tanto se stesso quanto quelli davanti a lui, e disse piano: — Ego te absolvo.
Il vento raschiò le pareti esterne e fischiò intorno ai doccioni e alle balconate. La luce della battaglia combattuta a cento milioni di chilometri gettò sul gruppetto delle sfumature sanguigne.
Il colonnello Kassad si avvicinò alla porta. Il gruppo si sciolse.
— Cerchiamo di dormire un poco — disse Brawne Lamia.
Più tardi, mentre ciascuno era nel sacco a pelo e ascoltava il vento che strideva e ululava, il Console appoggiò la guancia contro la sua sacca e tirò più su la ruvida coperta. Erano anni che non riusciva a prendere sonno facilmente.
Mise sotto la guancia le dita a pugno, chiuse gli occhi e si addormentò.
EPILOGO
Il Console sì svegliò al suono di una balalaika suonata così piano da fargli pensare che fosse un’eco segreta del suo sogno.
Si alzò, rabbrividì nell’aria gelida, si avvolse nella coperta e uscì sulla lunga balconata. Non era ancora l’alba. Il cielo ardeva ancora delle luci della battaglia.
— Mi spiace — disse Lenar Hoyt, alzando lo sguardo dallo strumento musicale. Il prete era infagottato nel mantello.
— Niente, niente — disse il Console. — Stavo per svegliarmi. — Era vero. Da un pezzo non si sentiva così riposato. — Continui, prego. — Le note erano nette e chiare, ma si udivano appena, nel rumore del vento. Sembrava quasi che Hoyt suonasse un duetto con il gelido vento dei picchi sovrastanti. Per il Console, la chiarezza di quel suono era quasi dolorosa.
Brawne Lamia e il colonnello Kassad uscirono sul balcone. Un minuto dopo, Sol Weintraub si unì a loro. Nelle sue braccia, Rachel si dimenò e allungò la manina verso il cielo notturno come se potesse afferrare i vividi colori che vi fiorivano.
Hoyt continuò a suonare. Il vento si alzava nell’ora precedente l’alba e i doccioni e le scarpate fungevano da canne alla gelida cornamusa del Castello.
Spuntò Martin Sileno, che si stringeva la testa. — Nessun merdoso rispetto per i postumi d’una sbronza — disse. Si appoggiò al largo parapetto. — Se rimetto da questa altezza, passerà un’ora prima che il vomito tocchi terra.
Padre Hoyt non sollevò lo sguardo. Le sue dita volavano sulle corde del piccolo strumento. Il vento di nordest crebbe d’intensità e diventò più freddo, mentre la balalaika gli faceva da contrappunto, con note calde e vive. Il Console e gli altri si strinsero nelle coperte e nei mantelli, mentre la brezza diventava un torrente e la musica senza nome ne teneva il passo. Era la sinfonia più bizzarra e bella che il Console avesse mai ascoltato.
Il vento soffiò a raffica, ruggì, raggiunse l’apice, morì. Hoyt terminò la musica.
Brawne Lamia si guardò intorno. — È quasi l’alba.
— Manca un’ora — disse il colonnello Kassad.
Lamia scrollò le spalle. — Perché aspettare?
— Sì, perché? — disse Sol Weintraub. Guardò a oriente, dove l’unico accenno del sorgere del sole era il debolissimo impallidire delle costellazioni. — Sembra proprio che avremo una bella giornata.
— Prepariamoci — disse Hoyt. — Ci occorrono, i bagagli?
Si scambiarono tutti un’occhiata.
— No, non credo — disse il Console. — Il colonnello porterà il comlog con il trasmettitore astrotel. Prendiamo solo il necessario per l’udienza con lo Shrike. Lasciamo qui il resto.
— D’accordo — disse Brawne Lamia, girandosi e facendo un gesto agli altri. — Muoviamoci.
C’erano seicento e sessantuno scalini, dal portone di nordest del Castello alla brughiera sottostante. E niente ringhiera. I sei scesero con prudenza nella luce incerta, badando a dove posavano i piedi.
Raggiunta la vallata, guardarono l’affioramento roccioso in alto. Castel Crono sembrava parte della montagna: le balconate e le scale esterne erano semplici squarci nella roccia. Di tanto in tanto un’esplosione più vivida illuminava una finestra o gettava un’ombra demoniaca; a parte questo, era proprio come se il Castello fosse svanito alle loro spalle.
Attraversarono le basse alture ai piedi del Castello, tenendosi sull’erba ed evitando la sterpaglia da cui spuntavano spine simili ad artigli. In dieci minuti arrivarono alla sabbia e iniziarono la discesa delle basse dune, in direzione della valle.
Brawne Lamia procedeva in testa al gruppetto. Indossava il suo mantello migliore e un abito di seta rossa con l’orlo nero. Il comlog le luccicava al polso. Dietro di lei veniva il colonnello Kassad. Era in tenuta da combattimento, ma il polimero mimetico non era ancora attivato per cui la tuta sembrava di un nero opaco e assorbiva anche la luce proveniente dall’alto. Kassad impugnava un fucile d’assalto della FORCE. Il visore dell’elmetto brillava come uno specchio nero.
Padre Hoyt indossava il mantello nero, l’abito nero e il colletto da pastore. Teneva fra le braccia la balalaika come se fosse un bambino. Avanzava con prudenza, come se ogni passo gli causasse dolore.
Poi veniva il Console. Indossava l’abito da cerimonia dei diplomatici: camicia inamidata, calzoni neri, giacchino, mantella di velluto, e il tricorno dorato che aveva indossato il primo giorno sulla nave-albero. Doveva tenerlo con una mano per via del vento che si era di nuovo alzato, gli scagliava in faccia granelli di sabbia, scivolava come un serpente sulla cima delle dune. Martin Sileno seguiva subito dopo, avvolto nel cappotto di pelliccia arruffata dal vento.
Sol Weintraub era l’ultimo della fila. Rachel era nel porta-neonati, annidata contro il petto del padre sotto il mantello e la giacca. Weintraub le canticchiava una bassa melodia che si perdeva nel vento.
Quaranta minuti all’aperto, ed entrarono nella città morta. Marmo e granito risplendevano nella luce violenta. Le vette brillavano alle loro spalle, il Castello non si distingueva dalle altre pareti montuose. Attraversarono una valletta di sabbia, risalirono una bassa duna e all’improvviso riuscirono a distinguere l’imboccatura della valle con le Tombe del Tempo per la prima volta. Il Console intravide la spinta delle ali della Sfinge e lo splendore della giada.
Lontano, alle loro spalle, si udirono un rombo e uno schianto. Il Console si girò, sorpreso, con il cuore che gli batteva all’impazzata.
— Comincia? — chiese Lamia. — Il bombardamento?
— No, guardate! — disse Kassad. Indicò un punto al di sopra delle vette, dove una macchia nera cancellava le stelle. Dei fulmini esplodevano lungo il falso orizzonte, illuminavano campi di neve e ghiacciai. — È solo una tempesta.
Ripresero il cammino fra la sabbia vermiglia. Il Console, aguzzata la vista, scorse una sagoma accanto alle Tombe o all’imboccatura della valle. Era certo al di là di ogni certezza che qualcosa li aspettava lì… che lui aspettava.
— Guardate là — disse Brawne Lamia, in un mormorio che quasi andò perso nel vento.