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Giorno 88

Tuk è morto. Assassinato.

Ho trovato il suo cadavere uscendo dalla tenda, allo spuntar del sole. Dormiva fuori, a meno di quattro metri da me. Aveva detto che voleva dormire sotto le stelle.

Gli assassini gli hanno tagliato la gola nel sonno. Non ho sentito nessun grido, ma ho sognato. Ho sognato Semfa che mi curava durante la febbre: mani fresche che mi toccavano il collo e il petto, che sfioravano il crocifisso che porto su di me da quand’ero bambino. Mi sono fermato accanto al cadavere di Tuk, a fissare l’ampio cerchio scuro dove il suo sangue ha inzuppato il suolo indifferente di Hyperion e ho avuto un brivido al pensiero che il sogno fosse stato più d’un sogno… che mani sconosciute mi avessero toccato davvero durante la notte.

Confesso d’avere reagito più da vecchio sciocco che da prete. Gli ho somministrato l’estrema unzione, ma poi mi sono lasciato prendere dal panico e ho abbandonato il cadavere della mia povera guida per cercare disperatamente un’arma fra le provviste. Ho preso un machete che avevo usato nella foresta pluviale e il maser a basso voltaggio che intendevo adoperare per la caccia alla piccola selvaggina, ma non so se avrei usato davvero un’arma contro un essere umano, anche solo per difesa. Però, preso dal panico, ho portato il machete, il maser e il binocolo elettronico fino a un grosso macigno nei pressi della Fenditura e ho scrutato la zona alla ricerca degli assassini. Niente si muoveva, a parte i minuscoli arboricoli e i ragnatelidi che ieri abbiamo visto svolazzare fra gli alberi. La foresta stessa sembrava anormalmente fitta e tenebrosa. La Fenditura mostrava a nordest centinaia di terrazze, di ripiani, di sporgenze rocciose sufficienti a intere bande di selvaggi. Un esercito si sarebbe potuto nascondere fra gli spuntoni di roccia e l’onnipresente nebbia.

Dopo trenta minuti di vigilanza infruttuosa e di sciocca codardia, sono tornato all’accampamento e ho preparato il cadavere di Tuk per la sepoltura. Ho impiegato più di due ore a scavare una fossa decente nel terreno sassoso dell’altopiano. Riempita la fossa e recitato il servizio funebre, non mi è venuto in mente niente di personale da dire dell’ometto rozzo e buffo che mi aveva fatto da guida. «Veglia su di lui, Signore» ho detto alla fine, disgustato per l’ipocrisia, sicuro nell’intimo di parlare solo a me stesso. «Aprigli le Tue porte. Amen.»

Stasera ho spostato il campo mezzo chilometro più a nord. La tenda è piantata in una zona sgombra a dieci metri da me, ma io sto con la schiena contro il macigno, avvolto nelle vesti da letto, con machete e maser a portata di mano. Dopo il funerale di Tuk ho fatto l’inventario delle provviste e delle attrezzature: non manca niente, a parte le ultime barre parascariche. Subito mi sono chiesto se qualcuno ci ha seguiti nella foresta di fuoco per uccidere Tuk e lasciarmi qui da solo, ma non mi viene in mente nessun motivo per un’azione del genere. Qualsiasi individuo della piantagione avrebbe potuto ucciderci nel sonno quando eravamo nella foresta pluviale, oppure — soluzione assai migliore, dal punto di vista d’un assassino — nel profondo della foresta di fuoco dove nessuno si sarebbe stupito per la presenza di due cadaveri carbonizzati. Rimanevano i Bikura. L’oggetto del mio interesse di partenza.

Ho pensato di tornare indietro e attraversare senza barre la foresta di fuoco, ma ho scartato subito l’idea. Restare qui significa morte probabile; tornare indietro, morte certa.

Mancano tre mesi, prima che i tesla tornino in stato di quiescenza. Centoventi dei giorni locali di ventisei ore. Un’eternità.

Buon Dio, perché è toccato a me? E perché sono stato risparmiato la notte scorsa, solo per essere sacrificato stanotte… o domani?

Siedo nel burrone sempre più buio e tendo l’orecchio all’improvviso gemito di malaugurio che sale con il vento notturno dalla Fenditura. Prego, mentre il cielo s’accende delle scie rosso sangue di meteoriti.

Impreco fra me.

Giorno 95

I terrori della scorsa settimana sono considerevolmente diminuiti. Anche la paura si affievolisce e diventa banale, dopo alcuni giorni di distensione.

Ho usato il machete per tagliare alberelli e costruirmi una capanna a una falda, coperta di tela-gamma e calafatata col fango. Si appoggia alla solida roccia del macigno. Ho fatto la cernita del mio equipaggiamento e ho tirato fuori alcuni attrezzi, anche se sospetto che per il momento non li userò.

Ho iniziato a rovistare in giro, per integrare la provvista di cibo liofilizzato che scema a vista d’occhio. A quest’ora, secondo l’assurdo programma stilato tanto tempo fa su Pacem, dovrei trovarmi già da qualche settimana fra i Bikura e dar loro delle cianfrusaglie in cambio di cibo locale. Pazienza. Per integrare la blanda dieta a base radici di chalma, facili da bollire, ho trovato cinque o sei tipi di bacche e frutti più grossi, garantiti commestibili dal comlog. Fino a questo momento, solo uno mi ha fatto male e mi ha costretto a stare accucciato tutta la notte sul bordo del burrone più vicino.

Percorro i confini della regione, irrequieto come uno di quei pelopi in gabbia tanto apprezzati dai padiscià di Armaghast. Un chilometro a sud e quattro a ovest, le foreste di fuoco sono in piena attività. Al mattino, il fumo gareggia con le mobili cortine di nebbia nell’oscurare il cielo. Solo le forre semisolide di besto, il suolo roccioso qui sulla sommità del pianoro e le creste a schiena d’asino che corrono come scaglie di corazza verso nordest, tengono a bada i tesla.

A nord, per una quindicina di chilometri, l’altopiano si allarga e la boscaglia diventa più fitta in vicinanza della Fenditura, finché la strada non si blocca di colpo di fronte a un burrone profondo un terzo e largo metà della Fenditura stessa. Ieri ho raggiunto questa punta estrema e con una certa rabbia ho fissato lo strapiombo. Proverò ancora, un giorno o l’altro, deviando a est per trovare un passaggio; ma dai segni rivelatori delle fenici al di là del baratro e dalla cappa di fumo all’orizzonte verso nordest, sospetto di trovare solo i canyon pieni di chalma e le steppe di foresta di fuoco rozzamente indicati nella mappa orbitale che porto con me.

Stanotte ho fatto visita alla tomba di sassi di Tuk, mentre il vento della sera iniziava a emettere il suo eolico lamento funebre. Mi sono inginocchiato e ho cercato di pregare, ma non ci sono riuscito.

Edouard, non sono riuscito a pregare! Sono vuoto come quei falsi sarcofaghi che tu e io abbiamo portato alla luce a decine nelle sterili sabbie desertiche vicino a Tarum bel Wadi.

Gli gnostici Zen direbbero che questo vuoto è buon segno, presagio d’apertura a un nuovo livello di consapevolezza, a nuove intuizioni, a nuove esperienze.

Merde.

Il mio vuoto è soltanto… vuoto.

Giorno 96

Ho trovato i Bikura. Per meglio dire, loro hanno trovato me. Scrivo quel che posso, prima che vengano a svegliarmi dal “sonno”.

Oggi eseguivo delle rilevazioni particolareggiate, a soli quattro chilometri dal campo, quando per il calore del mezzogiorno la nebbia si è alzata e mi ha permesso di scorgere sul mio lato della Fenditura una serie di terrazze fino a quel momento nascoste alla vista. Le stavo ispezionando con il binocolo elettronico (si trattava in realtà di una serie irregolare di cornici, guglie, ripiani e cespugli che si estendeva molto lontano sulla sporgenza) quando mi sono accorto d’avere sotto gli occhi alcune abitazioni costruite dall’uomo: una decina di rozze capanne… catapecchie di frasche di chalma, di pietra e di zolle spugnose… d’inconfondibile origine umana.

Sono rimasto lì, esitante, con il binocolo a mezz’aria, indeciso se scendere sui cornicioni non più nascosti dalla nebbia e affrontare gli abitanti o ritirarmi al campo, quando ho sentito lungo la nuca e la spina dorsale quel brivido che rivela con assoluta certezza la presenza di qualcuno. Ho abbassato il binocolo e mi sono girato lentamente. I Bikura erano lì, fermi. Erano una trentina e formavano un semicerchio che mi tagliava la ritirata nella foresta.