Non so cosa mi aspettavo. Selvaggi nudi, forse, con un’espressione feroce e collane di denti. O forse quel genere di eremiti scarmigliati e barbuti che i viaggiatori a volte incontrano sui monti Mosè di Hebron. Qualsiasi cosa avessi in mente, non quadrava affatto con i Bikura.
Gli individui, che mi si erano avvicinati senza fare il minimo rumore, erano bassi (m’arrivavano al massimo alla spalla) e avviluppati in vesti scure rozzamente intessute che li coprivano dal collo alla punta dei piedi. Quando si muovevano, come in quel momento, sembravano scivolare sul terreno come fantasmi. Da lontano, mi ricordavano un branco di piccoli gesuiti in un enclave di Nuovo Vaticano.
Sono stato lì lì per scoppiare a ridere come uno sciocco, ma ho capito che una simile reazione poteva essere un segno di panico crescente. I Bikura non mostravano segni d’aggressività che giustificassero il panico e non avevano armi: le loro piccole mani erano vuote. Vuote come la loro espressione.
È difficile descrivere in poche parole la loro fisionomia. Sono calvi. Tutti. La calvizie, l’assenza di peli sul viso e l’ampia veste che cade dritta a terra, rendono difficile distinguere i maschi dalle femmine. Il gruppo di fronte a me in questo momento (più di cinquanta individui, stavolta) sembra formato da persone più o meno della stessa età, fra i quaranta e i cinquanta anni standard. Hanno la faccia liscia e la pelle di una sfumatura giallastra che ritengo sia dovuta alla continua ingestione dei minerali presenti in tracce nei chalma e in altre piante locali.
Si potrebbe essere tentati di attribuire ai Bikura una faccia da cherubino ma, dopo esame più attento, l’impressione di dolcezza svanisce, sostituita da un’altra interpretazione: placida idiozia. Come prete, ho trascorso abbastanza tempo su pianeti arretrati per riconoscere gli effetti di un antico disordine genetico variamente chiamato sindrome di Down, mongolismo o ereditarietà d’astronave generazionale. Comunque, l’impressione generica prodotta su di me dalla sessantina di piccoli individui dalla veste scura è stata questa: di essere accolto da un branco di silenziosi, sorridenti, calvi bambini mentalmente ritardati.
Subito ho ricordato a me stesso che quasi certamente quelli erano gli stessi “bambini sorridenti” che avevano tagliato nel sonno la gola a Tuk e l’avevano lasciato morire come un maiale sgozzato.
Il Bikura più vicino è venuto avanti, si è fermato a cinque passi da me e ha detto qualcosa con una voce bassa e monotona.
«Un momento solo» ho risposto, frugando alla ricerca del comlog, poi ho predisposto l’apparecchio sulla funzione di traduttore.
«Beyetet ota menna lot cresfem ket?» ha domandato il piccoletto di fronte a me.
Mi sono messo l’auricolare appena in tempo per sentire la traduzione del comlog. Non c’è stato intervallo. Quella lingua apparentemente straniera era solo una corruzione dell’inglese arcaico delle navi coloniali, non molto diversa dal dialetto indigeno delle piantagioni. «Sei l’uomo che appartiene alla croce/crucimorfo?» ha tradotto il comlog, offrendo due varianti per l’ultimo sostantivo.
«Sì» ho risposto. Ora sapevo che erano stati loro a toccarmi durante il sonno, mentre Tuk veniva assassinato. Quindi erano stati loro, a ucciderlo.
Ho aspettato. Il maser da caccia era nello zaino. Lo zaino era posato contro un piccolo chalma, a meno di dieci passi. Fra me e lo zaino c’erano cinque o sei Bikura, ma non aveva importanza. Ho capito in quell’istante che non sarei mai stato capace di usare un’arma contro un altro essere umano, anche se aveva assassinato la mia guida e da un momento all’altro avrebbe potuto uccidere pure me. Ho chiuso gli occhi e ho recitato mentalmente l’atto di dolore. Quando li ho riaperti, erano arrivati altri Bikura. Ma non si muovevano, come se avessero raggiunto un quorum, preso una decisione.
«Sì» ho ripetuto, nel silenzio. «Sono l’uomo che porta la croce.» L’ultima parola del comlog suonava come “cresfem”.
I Bikura hanno annuito all’unisono e, quasi avessero una lunga pratica da chierichetti, con un fruscio di stoffa hanno piegato tutti insieme le ginocchia in una genuflessione perfetta.
Sono rimasto a bocca aperta. Non ho trovato niente da dire.
I Bikura si sono alzati. La brezza ha mosso le fragili fronde e le foglie di chalma provocando un fruscio secco, da fine dell’estate. Il Bikura più vicino a me sulla sinistra si è accostato, mi ha afferrato il braccio con le dita fredde e forti, e ha pronunciato una breve frase che il comlog ha tradotto così: «Vieni. È ora di entrare in casa e dormire».
Era metà pomeriggio. Mi sono chiesto se il comlog avesse tradotto correttamente il termine “dormire”, o se non si trattasse invece di una parola idiomatica, di una metafora per “morire”; ma ho annuito e li ho seguiti al villaggio sull’orlo della Fenditura.
Ora me ne sto seduto nella capanna e aspetto. Sento dei fruscii. Qualcun altro è sveglio. Me ne sto seduto e aspetto.
Giorno 97
I Bikura si definiscono le “Tre ventine e dieci”.
Ho trascorso le ultime ventisei ore a parlare con loro, a fare osservazioni, a prendere note (quando a metà pomeriggio vanno a “dormire” per due ore) e a registrare il maggior numero possibile di dati prima che decidano di tagliarmi la gola.
Ma ormai comincio a credere che non mi faranno alcun male.
Ieri ho parlato con loro, dopo la “dormita”. A volte non rispondono alle domande e, se lo fanno, le risposte sono poco più che borbottii e frasi da bambini lenti di comprendonio. Dopo la loro domanda iniziale e l’invito al primo incontro, nessuno di loro mi ha rivolto una sola domanda né ha espresso commenti sul mio modo di fare.
Li ho interrogati sottilmente, con cautela, con precauzione, con la calma professionale dell’etnologo addestrato. Ho fatto le domande più semplici, più elementari, per essere sicuro che il comlog funzionasse in modo corretto. Funzionava, ma la somma totale delle risposte mi ha lasciato ignorante come venti e passa ore prima.
Alla fine, stanco nel corpo e nello spirito, ho abbandonato la sottigliezza professionale e ho chiesto al gruppo col quale sedevo: «Avete ucciso il mio compagno?»
I miei tre interlocutori non hanno sollevato lo sguardo dall’ordito del rozzo telaio. «Sì» ha detto quello che tra me chiamavo Alfa, perché era stato il primo ad avvicinarmi nella foresta. «Gli abbiamo tagliato la gola con una pietra affilata e l’abbiamo tenuto fermo e zitto mentre si dibatteva. È morto della vera morte.»
«Perché?» ho domandato dopo un istante, con la voce secca come un cartoccio di granturco sbriciolato.
«Perché è morto della vera morte?» ha detto Alfa, sempre senza sollevare lo sguardo. «Perché ha perso tutto il sangue e ha smesso di respirare.»
«No» ho detto. «Perché l’avete ucciso?»
Alfa non ha risposto. Ma Betty — che forse è femmina e compagna di Alfa, forse no — ha sollevato gli occhi dal telaio e Ha detto con semplicità: «Per farlo morire».
«Perché?»
Davano sempre una risposta, ma non riuscivano mai a illuminarmi d’uno iota. Dopo un mucchio di domande, ho accertato che hanno ucciso Tuk per farlo morire e che è morto perché è stato ucciso.
«Qual è la differenza fra morte e vera morte?» ho domandato. A quel punto non mi fidavo più del comlog né del mio temperamento.
Il terzo Bikura, Del, ha brontolato una risposta che il comlog ha reso così: «Il tuo compagno è morto della vera morte. Tu no».