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Allora, quasi rabbioso, sono sbottato: «Perché? Perché non mi avete ucciso?».

Tutti e tre hanno interrotto il loro lavoro meccanico e mi hanno guardato. «Non puoi essere ucciso perché non puoi morire» ha detto Alfa. «Non puoi morire perché tu appartieni al crucimorfo e segui la via della croce.»

Non ho idea del perché la maledetta macchina traduca “croce” una volta e “crucimorfo” quella dopo. Perché tu appartieni al crucimorfo.

Ho sentito un brivido, seguito dall’impulso di ridere. Mi ero per caso imbattuto in quel vecchio cliché degli ologrammi d’avventura… la tribù perduta che adorava il “dio” trovato nella giungla finché il povero bastardo non si tagliava facendosi la barba, o in qualche altro modo, e i selvaggi, certo un po’ sollevati per l’evidente natura mortale del visitatore, non sacrificavano colui che fino a poco prima avevano considerato una divinità?

Sarebbe stato buffo, se l’immagine del viso esangue di Tuk e della sua ferita dai bordi laceri non fosse stata così fresca.

La loro reazione alla croce suggeriva senza dubbio che avevo incontrato un gruppo di sopravvissuti di una colonia un tempo cristiana (cattolica?), anche se i dati del comlog insistevano sul fatto che la navetta di settanta coloni, schiantatasi quattrocento anni fa su questo altopiano, trasportava solo marxisti di Nuova Kerwin, tutti certo indifferenti, se non apertamente ostili, alle antiche religioni.

Ho considerato l’opportunità di lasciar perdere con la scusa che poteva essere pericoloso continuare con quell’argomento, ma il mio sciocco bisogno di sapere mi ha spinto a proseguire. «Adorate Gesù?» ho chiesto.

La loro espressione vacua non aveva bisogno di negazioni verbali.

«Cristo?» ho riprovato. «Gesù Cristo? Cristiani? Chiesa Cattolica?»

Nessun segno d’interesse.

«Cattolici? Gesù? Maria? San Pietro? San Paolo? San Teilhard?»

Il comlog emetteva dei suoni, ma sembrava che per loro quelle parole non avessero nessun significato.

«Seguite la croce?» ho detto, cercando alla cieca un punto di contatto.

M’han guardato tutti e tre. «Apparteniamo al crucimorfo» ha detto Alfa.

Ho annuito senza capire.

Stasera mi sono addormentato poco prima del tramonto; sono stato svegliato dalla musica d’organo dei venti serali nella Fenditura. Era molto più forte, qui sulle cornici del villaggio. Anche le capanne sembravano unirsi al coro, mentre le raffiche nascenti fischiavano e gemevano tra le fessure delle pietre, le fronde sbattute, i rozzi camini.

C’era qualcosa di sbagliato. Intontito com’ero, ho impiegato un minuto per capire che il villaggio era deserto. Le capanne erano tutte vuote. Seduto su un sasso freddo, mi sono chiesto se la mia presenza non avesse generato un esodo in massa. La musica del vento era cessata e le meteoriti avevano iniziato il loro grandioso spettacolo d’ogni notte, fra gli squarci delle nubi basse, quando ho sentito un rumore alle mie spalle; mi sono girato e mi sono trovato di fronte tutti i settanta Tre Ventine e Dieci.

Mi sono passati accanto senza una parola, diretti alle capanne. Non si è accesa nessuna luce, e ho immaginato che ciascuno sedesse nella propria capanna con lo sguardo fisso.

Sono rimasto fuori ancora un poco, prima di rientrare anch’io. Qualche tempo dopo, sono andato fino all’orlo della cornice erbosa e mi sono fermato dove la parete di roccia sprofonda nell’abisso. Un grappolo di liane e di radici aderiva alla parete del precipizio, ma sembrava terminare qualche metro più sotto e penzolare sul nulla. Nessuna liana è così lunga da arrivare al fiume, due chilometri più in basso.

Eppure i Bikura erano arrivati da quella direzione.

Niente aveva senso. Ho scosso la testa e sono tornato nella capanna.

Seduto qui, mentre scrivo alla luce del diskey del comlog, penso alle precauzioni da prendere per essere sicuro di rivedere il sole.

Non me ne viene in mente nessuna.

Giorno 103

Più apprendo, meno comprendo.

Ho trasferito la maggior parte dell’equipaggiamento nella capanna che lasciano vuota per me, qui nel villaggio.

Ho scattato fotografie, ho registrato chip video e audio, ho fatto una completa oloscansione del villaggio e dei suoi abitanti. Sembra che a loro non importi. Proietto le loro immagini e i Bikura si limitano ad attraversarle senza mostrare il minimo interesse. Faccio ascoltare loro le frasi registrate: sorridono e se ne tornano alle capanne dove restano seduti per ore senza far niente, senza dire niente. Offro cianfrusaglie da scambio: le prendono senza commenti, controllano se sono commestibili, poi le lasciano per terra. L’erba è cosparsa di perline di plastica, specchietti, tagli di stoffa colorata, penne da quattro soldi.

Ho impiantato un laboratorio medico completo, ma senza risultati. I Tre Ventine e Dieci non si lasciano esaminare, non mi permettono di prelevare campioni di sangue anche se ho ripetutamente mostrato loro che il procedimento è indolore, e non si sottopongono all’apparecchiatura diagnostica… in poche parole, non collaborano in nessun modo. Non discutono. Non danno spiegazioni. Si limitano a voltare le spalle e ad andarsene per i nonaffari loro.

Dopo una settimana, ancora non distinguo i maschi dalle femmine. La loro faccia ricorda quei puzzle visivi che cambiano forma se li fissi: a volte il viso di Betty sembra innegabilmente femminile; dieci secondi dopo l’impressione svanisce e penso a lei (o a lui?) solo come Beta. La loro voce subisce la stessa trasformazione. Morbida, ben modulata, asessuata… mi ricorda quei computer da casa, programmati senza tante sofisticazioni, che ancora si vedono sui mondi più arretrati.

Mi capita di augurarmi di sorprendere per un attimo un Bikura nudo. Non è facile, per un gesuita di quarantotto anni standard, ammettere una cosa del genere; eppure non sarebbe un’impresa facile nemmeno per un voyeur incallito. Il tabù del nudo sembra assoluto. I Bikura indossano una lunga veste, sia da svegli sia durante il pisolino pomeridiano di due ore. Se devono orinare o defecare lasciano la zona del villaggio, e sospetto che neppure allora si tolgano l’ampia veste. Sembra che non facciano il bagno. Si può pensare che questo modo di vivere causi problemi d’olfatto, ma questi primitivi non hanno nessun odore, a parte il lieve aroma dolciastro del chalma. «Ti spoglierai pure qualche volta» dico un giorno ad Alfa, abbandonando la convenienza in favore della scienza. «No» risponde Al, e se ne va a sedersi e a non fare nulla, completamente vestito.

Non hanno nome. Sulle prime mi è sembrato incredibile, ma ora ne sono sicuro.

«Siamo tutto ciò che fu e che sarà» ha detto il Bikura più basso, che considero femmina e che chiamo Eppie. «Siamo i Tre Ventine e Dieci.»

Ho frugato nelle registrazioni del comlog per avere conferma a quel che già sospettavo: su più di sedicimila società umane conosciute, non ne esiste una che non abbia nomi individuali. Persino nella società tipo alveare di Lusus gli individui sono identificati con la categoria di classe, seguita da un semplice codice.

Dico il mio nome e loro mi fissano. «Padre Paul Duré, padre Paul Duré» ripete il traduttore del comlog, ma loro non fanno nessun tentativo, nemmeno una semplice ripetizione.

A parte la quotidiana scomparsa in massa prima del tramonto, e il comune sonnellino di due ore, in gruppo fanno ben poco. Anche la loro sistemazione sembra casuale. Alfa trascorre un periodo di sonno con Betty, quello dopo con Gam, l’altro ancora con Zelda o con Pete. Senza un piano o un programma visibile. Ogni tre giorni l’intero gruppo dei settanta va nella foresta per fare provviste e torna con bacche, radici e corteccia di chalma, frutta e qualsiasi altra cosa commestibile. Ero certo che fossero vegetariani, finché non ho visto Del sgranocchiare il corpo freddo di un arboricolo appena nato. Il piccolo primate era certo caduto dai rami più alti. A quanto pare, i Tre Ventine e Dieci non disdegnano la carne: sono semplicemente troppo stupidi per andare a caccia e procurarsela.