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Quando hanno sete, i Bikura percorrono quasi trecento metri fino al torrente che si riversa nella Fenditura. Nonostante questa scomodità, non c’è segno di otri, brocche, terraglie di qualsiasi genere. Io tengo una riserva d’acqua, in contenitori di plastica da quaranta litri; ma loro non se ne accorgono nemmeno. Nel mio rispetto sempre meno accentuato per queste creature, non mi sembra più inverosimile che abbiano vissuto per generazioni intere in un villaggio senza una sorgente d’acqua a portata di mano.

«Chi ha costruito le case?» chiedo, visto che non hanno una parola per indicare il villaggio.

«I Tre Ventine e Dieci» risponde Will. Lo distinguo dagli altri perché ha un dito rotto che non si è saldato bene. Ciascuno di loro possiede una di queste caratteristiche distintive, anche se a volte penso che sarebbe più facile distinguere un corvo dall’altro.

«Quando le hanno costruite?» chiedo, anche se ormai dovrei sapere che una domanda che inizia con “quando” non riceve mai risposta.

Non ricevo risposta.

Vanno giù nella Fenditura ogni sera. Scendono lungo le liane. La terza sera ho provato a osservare l’esodo, ma sei di loro mi hanno spinto via dall’orlo e con gentilezza, ma con insistenza, mi hanno ricondotto alla capanna. È stata la prima azione visibile dei Bikura che suggerisse aggressività; dopo la loro partenza, mi è rimasta una certa apprensione.

La sera dopo, mentre se ne andavano, sono entrato in silenzio nella mia capanna senza dare nemmeno un’occhiata fuori; ma al loro ritorno ho recuperato l’olocamera e il cavalietto da dove li avevo lasciati, vicino all’orlo della Fenditura. Il timer ha funzionato alla perfezione. Le olografie mostrano i Bikura che afferrano le liane e si calano lungo la parete del precipizio con l’agilità dei piccoli arboricoli che riempiono la foresta di chalma e di alberi weir, e scompaiono poi sotto la sporgenza.

«Cosa fate, quando scendete nel precipizio ogni sera?» ho chiesto ad Alfa il giorno dopo.

Il nativo mi ha guardato con quel serafico sorriso da Buddha che ho imparato a odiare. «Tu appartieni al crucimorfo» ha detto, come se questo spiegasse tutto.

«Andate nel vostro luogo di culto, quando scendete di sotto?» ho domandato.

Nessuna risposta.

Ho riflettuto per qualche istante. «Anch’io seguo la croce» ho detto, ben sapendo che la frase sarebbe stata tradotta come “appartengo al crucimorfo”. Ormai per le necessità quotidiane posso fare a meno del traduttore, ma questa conversazione era troppo importante per correre rischi. «Significa che dovrei venire con voi, quando andate di sotto?»

Per un istante ho creduto che Al riflettesse. Sulla fronte gli è comparsa una ruga: è stata la prima volta che ho visto un Tre Ventine e Dieci mostrare un’espressione vicina alla perplessità. Poi Al ha detto: «Non puoi. Appartieni al crucimorfo ma non ai Tre Ventine e Dieci».

Ho capito che ha dovuto impegnare ogni neurone e ogni sinapsi del suo cervello, per formulare questa distinzione.

«Cosa fareste, se scendessi nel precipizio?» ho domandato, senza aspettarmi una risposta. Le domande ipotetiche quasi sempre hanno la stessa fortuna di quelle temporali.

Ma stavolta ha risposto. Ha ripreso il sorriso serafico e l’aria imperturbata, mentre diceva piano: «Se scendi nel precipizio, ti teniamo fermo sull’erba, prendiamo pietre affilate, ti tagliamo la gola e aspettiamo che il tuo sangue smetta di scorrere e il tuo cuore di battere».

Sono rimasto zitto. Mi sono chiesto se anche lui sentiva come mi batteva forte il cuore in quel momento. Bene, mi sono detto, almeno non devo più preoccuparmi che mi ritengano un dio.

Il silenzio si è protratto. Alla fine Al ha aggiunto una frase, sulla quale da allora non faccio che riflettere. «E se lo rifai» ha detto «dobbiamo ucciderti di nuovo.»

Ci siamo fissati a lungo; e, sono sicuro, ciascuno di noi era convinto che l’altro fosse un perfetto idiota.

Giorno 104

A ogni nuova scoperta sono sempre più confuso.

Fin dal primo giorno nel villaggio, l’assenza di bambini mi aveva lasciato perplesso. Ripassando gli appunti, trovo frequenti accenni a questo fatto, nelle osservazioni quotidiane dettate al comlog; ma ancora non ne ho fatto cenno in questo guazzabuglio personale che chiamo diario. Forse le implicazioni sono troppo spaventose.

Ai miei frequenti e goffi tentativi di penetrare il mistero, i Tre Ventine e Dieci hanno offerto i soliti chiarimenti: l’individuo interrogato sorride beatamente e risponde con qualche non sequitur al cui confronto il borbottio del peggior idiota del villaggio dei mondi della Rete sembrerebbe un aforisma pieno di saggezza. La maggior parte delle volte non risponde affatto.

Un giorno mi sono messo davanti al Bikura etichettato Del, sono rimasto lì finché non è stato costretto ad ammettere la mia presenza, poi gli ho chiesto: «Perché non ci sono bambini?»

«Siamo i Tre Ventine e Dieci» ha risposto calmo.

«Dove sono i bambini?»

Nessuna risposta. Nemmeno l’impressione che evitasse di rispondere: solo uno sguardo fisso e vacuo.

Ho inspirato a fondo. «Chi fra voi è il più giovane?»

M’è parso che Del riflettesse, che lottasse con l’idea. Per lui, era troppo. Mi sono domandato se i Bikura avessero perso a tal punto il senso del tempo che anche domande del genere erano destinate a restare senza risposta. Dopo un minuto, tuttavia, Del ha indicato il punto dove Al, seduto al sole, azionava il rozzo telaio a mano e ha detto: «Lì c’è l’ultimo che è tornato».

«Tornato?» ho detto. «Da dove?»

Del mi ha fissato senza emozione, senza impazienza. «Tu appartieni al crucimorfo. Certo conosci la via della croce.»

Ho annuito. Ne sapevo abbastanza per capire che in quella direzione c’era solo uno dei molti e illogici cicli iterativi che di solito facevano deragliare i nostri dialoghi, ma ho cercato di mantenere un aggancio al filo sottile dell’informazione. «Allora» ho detto «Al è l’ultimo nato. L’ultimo a tornare. Ma altri… torneranno?»

Non ero sicuro di capire io stesso la domanda. Come si fa a parlare di nascita quando l’interlocutore non ha parole per indicare i figli, né il concetto di tempo? Ma sembrava che Del avesse capito. Ha mosso la testa in un cenno d’assenso.

Incoraggiato, ho proseguito. «Allora quando nascerà il prossimo Tre Ventine e Dieci? Quando tornerà?»

«Nessuno torna, finché non muore» ha risposto.

Di colpo mi è sembrato di capire. «Allora nessun nuovo bambino… nessuno tornerà, finché qualcuno non muore» ho detto. «Sostituite lo scomparso con un altro, per mantenere il gruppo a Tre Ventine e Dieci?»

Del ha risposto con quel tipo di silenzio che ho imparato a interpretare come un assenso.

Il quadro mi è sembrato abbastanza chiaro. I Bikura danno molta importanza al fatto di essere Tre Ventine e Dieci, e mantengono quindi la popolazione tribale a settanta unità: lo stesso numero segnato nell’elenco passeggeri della navetta precipitata su questo altopiano quattrocento anni fa. È poco probabile che si tratti di una coincidenza. Quando uno muore, consentono la nascita d’un bambino per rimpiazzare l’adulto. Semplice.

Semplice, ma impossibile. Natura e biologia non funzionano in questo modo elementare. A parte il problema della popolazione ridotta al minimo gregale, ci sono altre assurdità. Anche se è difficile dare un’età a questa gente dalla pelle liscia, è chiaro che non più di dieci anni separano il più giovane dal più anziano. Anche se si comportano come bambini, direi che la loro età è compresa fra i trentacinque e i quarantacinque anni standard. Ma allora dove sono quelli veramente anziani? Dove sono i genitori, i vecchi zii, le zie celibi? A questo ritmo, l’intera tribù arriverà alla vecchiaia più o meno nello stesso periodo. Che cosa succede, quando tutti superano l’età riproduttiva ed è il momento di sostituire i membri della tribù?