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Giorno 106

Mi sono svegliato in un mattino perfetto. Il cielo è d’un turchese intenso, il sole una vivida pietra rosso sangue incastonata nel cielo. Mi sono fermato fuori della capanna mentre la nebbia si schiariva, gli arboricoli terminavano il loro concerto mattutino di strida e l’aria cominciava a scaldarsi. Poi sono rientrato a guardare di nuovo nastri e dischi.

Mi rendo conto che negli appunti scritti in fretta ieri, sulle ali dell’entusiasmo, non ho fatto parola di quel che ho scoperto nell’abisso. Ne parlo ora. Ho i dischi, i nastri filmati, gli appunti sul comlog, ma c’è sempre la possibilità che solo i miei diari personali siano ritrovati.

Ieri mattina, alle sette e mezzo circa, mi sono calato nel burrone. Tutti i Bikura stavano raccogliendo provviste nella foresta. La discesa sembrava abbastanza agevole: in molti punti le liane si attorcigliavano quasi a formare una specie di scala di corda. Ma mentre mi lasciavo penzolare lungo la parete, il cuore mi batteva tanto forte da dolermi. C’è un abisso a picco di tremila metri, fino alle rocce e al fiume. A ogni istante, mi reggevo con forza almeno a due liane e procedevo a passo di lumaca, sforzandomi di non guardare l’abisso spalancato sotto i miei piedi.

Ho impiegato quasi un’ora a scendere i centocinquanta metri che, ne sono certo, i Bikura percorrono in dieci minuti. Alla fine ho raggiunto una sporgenza ricurva. Alcune liane scendono nel vuoto, ma la maggior parte si arriccia sotto una lastra di roccia a picco verso la parete del baratro, trenta metri all’interno. Qua e là sembra che le liane siano state intrecciate in modo da formare rozzi ponti sui quali i Bikura probabilmente camminano senza aiutarsi con le mani o aiutandosi pochissimo. Ho strisciato su queste funi intrecciate, afferrandomi ad altre liane per non cadere e recitando preghiere che non dicevo più da quand’ero bambino. Ho tenuto gli occhi fissi davanti a me per dimenticare che sotto quelle funi scricchiolanti e ondeggianti, di natura vegetale, c’era solo una distesa apparentemente infinita d’aria.

Lungo la parete dell’abisso c’era una larga sporgenza. Quando mi sono inoltrato di tre metri sul ripiano, mi sono infilato fra le liane e mi sono lasciato cadere sulla lastra di pietra da due metri e mezzo d’altezza.

Il ripiano, largo circa cinque metri, termina dopo un breve tratto verso nordest, dove inizia la grande massa della sporgenza. Ho seguito una specie di sentiero lungo il ripiano in direzione sudest e dopo aver percorso trenta passi mi sono fermato, sorpreso. Era davvero un sentiero! Un sentiero scavato nella solida roccia. La sua superficie lucida era di alcuni centimetri inferiore alla roccia piana circostante. Più avanti, dove supera un bordo ricurvo verso un livello più basso e più ampio, nella pietra erano stati intagliati dei gradini; anche questi così consunti da dare l’impressione che potessero cedere nel mezzo.

Mi sono seduto per qualche istante, colpito da una semplice constatazione. Nemmeno quattro secoli di percorso giornaliero da parte dei Tre Ventine e Dieci giustifica una simile erosione della solida roccia. Qualcuno, o qualcosa, ha usato questo sentiero molto prima che i coloni Bikura atterrassero sul pianoro. Qualcuno, o qualcosa, da millenni ha usato il sentiero.

Mi sono rialzato e ho continuato ad avanzare. L’unico rumore era il soffio gentile del vento nella Fenditura larga mezzo chilometro. Mi sono accorto che riuscivo a sentire il debole mormorio del fiume molto più in basso.

Il sentiero curvava a sinistra attorno a una sezione della parete rocciosa e lì terminava. Sono sbucato in un ampio riparo di pietra leggermente in pendenza e sono rimasto a occhi spalancati. Credo di essermi fatto il segno della croce senza accorgermene.

Dato che questa cengia correva dritta da nord a sud lungo uno squarcio di cento metri nella parete, a ovest potevo vedere il baratro di trenta chilometri della Fenditura fino al cielo aperto dove l’altopiano terminava. Ho subito capito che ogni sera il sole al tramonto avrebbe illuminato questa lastra della parete di roccia sotto la sporgenza. Non sarei rimasto sorpreso se, in primavera o durante il solstizio d’autunno, il sole di Hyperion, da quel punto di osservazione, apparisse incastonato direttamente nella Fenditura, con il suo bordo rosso proprio a contatto con le pareti rocciose tinte di rosa.

Mi sono girato sulla sinistra e ho fissato la parete dell’abisso. Il sentiero consunto attraversava l’ampio ripiano di pietra fino a una porta intagliata nella parete verticale. No, non era una semplice porta, era un portale riccamente scolpito, con l’architrave e i puntoni di pietra abbondantemente ornati. Ai lati della porta a due battenti c’erano alcune grandi finestre di vetro colorato, che si alzavano di venti metri almeno verso la sporgenza. Mi sono avvicinato per ispezionare la facciata. Chiunque avesse edificato quel posto, aveva allargato l’area sotto la sporgenza, tagliato nel granito dell’altopiano una parete liscia e perpendicolare e poi scavato direttamente nel fianco dello strapiombo. Ho passato la mano sopra i profondi rilievi delle sculture ornamentali intorno alla porta. Lisci. Anche lì, in un punto che il bordo della sporgenza nascondeva e proteggeva dagli elementi, ogni cosa era stata levigata, consunta, ammorbidita dal tempo. Da quante migliaia d’anni questo… questo tempio… era scolpito nella parete meridionale della Fenditura?

Il vetro colorato non era né vetro né plastica, ma una sostanza spessa e trasparente che al tocco sembrava dura come le pietre circostanti. E la finestra non era composta da una serie di pannelli; i colori roteavano, cambiavano sfumatura, si fondevano e si mischiavano l’uno all’altro come olio sull’acqua.

Ho tolto dallo zaino la torcia elettrica, ho toccato un battente e, quando l’alto portale si è mosso verso l’interno senza il minimo attrito, ho avuto un attimo di esitazione.

Sono entrato nel vestibolo (non c’è altra parola, per definirlo), ho attraversato uno spazio silenzioso di dieci metri e mi sono fermato davanti a un secondo muro fatto del medesimo materiale simile al vetro colorato che in quello stesso momento sfolgorava dietro di me e riempiva il vestibolo di una luce densa d’un centinaio di sfumature. Ho capito all’istante che al tramonto i raggi diretti del sole avrebbero riempito questa stanza, che colori incredibilmente accesi avrebbero colpito la parete di vetro di fronte a me e illuminato ciò che si trovava al di là, qualsiasi cosa fosse.

Ho trovato una porta contornata da un metallo sottile e scuro, incastonata nel vetro colorato, e ho varcato la soglia.

Su Pacem, basandoci su antiche fotografie e ologrammi, abbiamo ricostruito con la miglior precisione possibile la basilica di San Pietro, proprio come sorgeva nell’antico Vaticano. Lunga quasi duecentotrenta metri e larga centocinquanta, la chiesa può contenere cinquantamila fedeli, quando Sua Santità dice la Messa, ma noi non ne abbiamo mai più di cinquemila; nemmeno quando, ogni quarantatré anni, vi si riunisce il Concilio Episcopale Intergalattico. Nell’abside centrale, accanto alla nostra copia del trono del Bernini, la grande cupola s’innalza a più di centotrenta metri sull’altare: uno spettacolo impressionante.

Questo tempio era più vasto.

Nella penombra ho usato il raggio della torcia per constatare che mi trovavo in una singola, grande sala… un enorme salone scavato nella solida roccia. Ho calcolato che le pareti levigate toccavano il soffitto a un livello che probabilmente era solo a qualche metro dalla spianata sullo strapiombo dove i Bikura hanno le loro capanne. Qui non c’erano decorazioni né arredi, nessuna concessione allo stile e alla funzione dell’enorme sala piena d’echi, a parte l’oggetto collocato esattamente al centro.

In quel punto c’era un altare… un lastrone di pietra di cinque metri quadrati, attorno al quale era stata scavata la sala. E sull’altare si innalzava una croce.