Le trasmissione terminò e rimase solo la pulsazione delle coordinate d’appuntamento. «Risposta?» domandò il computer della nave. Nonostante l’enorme energia necessaria, l’astronave era in grado di inserire una breve raffica in codice nell’incessante borbottio di esplosioni più veloci della luce che collegava le zone della galassia occupate dagli esseri umani.
— No — rispose il Console; uscì e andò ad appoggiarsi alla ringhiera della loggia. La notte era scesa, le nuvole correvano basse. Non si vedeva nemmeno una stella. L’oscurità sarebbe stata totale, senza i lampi a nord e la lieve fosforescenza che si levava dalle paludi. Di colpo il Console ebbe la netta consapevolezza d’essere, in quel preciso secondo, l’unica creatura intelligente in un mondo disabitato dall’uomo. Ascoltò i rumori della notte antidiluviana che salivano dalle paludi, pensò al mattino, quando alle prime luci sarebbe partito nel VEM Vikken, al giorno che avrebbe trascorso in pieno sole, alla caccia grossa nella foresta di felci a sud e al ritorno alla nave, la sera, per consumare una buona bistecca e una birra gelata. Pensò all’acuto piacere della caccia e all’altrettanto acuta consolazione della solitudine: solitudine che si era guadagnato con il dolore e l’incubo patiti un tempo su Hyperion.
Hyperion.
Il Console rientrò, richiamò all’interno la loggia e sigillò la nave proprio mentre iniziavano a cadere i primi goccioloni. Salì la scala a chiocciola che portava alla cabina letto. La stanza circolare era buia, illuminata a tratti dalle silenziose esplosioni dei fulmini che mettevano in risalto i rivoli di pioggia che rigavano il lucernario. Il Console si spogliò, si distese sul materasso duro e accese l’impianto sonico e i microfoni esterni. Ascoltò la furia della tempesta mescolarsi alla Cavalcata delle Valchirie di Wagner. Venti d’uragano schiaffeggiarono la nave. Il rombo dei tuoni riempì la stanza, mentre dal lucernario entravano lampi di luce biancastra che rimanevano impressi per qualche secondo nella retina.
“Wagner va bene solo per le tempeste” pensò. Chiuse gli occhi, ma dietro le palpebre continuò a scorgere i lampi. Ricordò il riflesso di cristalli di ghiaccio spinti dal vento fra le rovine diroccate sulle basse montagne nei pressi delle Tombe del Tempo, il balenio più gelido dell’acciaio in quell’impossibile albero di spine metalliche che era lo Shrike; ricordò urla nella notte e lo sguardo fisso, dalle molteplici sfaccettature, color rubino e sangue, dello Shrike stesso.
Hyperion.
Il Console ordinò mentalmente al computer di spegnere gli altoparlanti. Con i polsi si coprì gli occhi. Nel silenzio improvviso rimase disteso a meditare sulla follia d’un ritorno su Hyperion. Nel corso degli undici anni come Console su quel remoto, enigmatico mondo, la misteriosa Chiesa Shrike aveva concesso a una decina di chiatte di pellegrini giunti dai mondi esterni di partire per le terre desolate e battute dal vento intorno alle Tombe del Tempo, a nord delle montagne. Nessuno era tornato. E questo accadeva in tempi normali, quando lo Shrike era prigioniero delle maree temporali e di forze che nessuno capiva, quando i campi anti-entropici si estendevano solo a qualche decina di metri dalle Tombe. E non c’era la minaccia dell’invasione degli Ouster.
Il Console pensò allo Shrike, libero di vagabondare dovunque, su Hyperion; ai milioni d’indigeni e alle migliaia di cittadini dell’Egemonia, inermi di fronte a una creatura che sfidava le leggi fisiche e che comunicava solo tramite la morte, e rabbrividì nonostante il caldo della cabina.
Hyperion.
La notte trascorse, la tempesta passò. Un altro fronte tempestoso precedette nel cielo l’alba in arrivo. Gimnosperme alte due metri si piegarono e frustarono l’aria sotto l’acqua torrenziale. Alcuni minuti prima che spuntasse il giorno, la nave nera come l’ebano si alzò su una coda di plasma azzurrino e si lanciò nello spazio per presentarsi all’appuntamento.
1
Il Console si svegliò con i sintomi tipici: mal di testa, gola secca e l’impressione d’avere dimenticato mille sogni che solo un periodo di crio-fuga poteva generare. Batté le palpebre, si alzò a sedere sulla bassa cuccetta e con movimenti ancora intorpiditi spinse via gli ultimi nastri sensori ancora attaccati alla pelle. Con lui, nella stanza ovoidale e priva di finestre, c’erano due cloni dell’equipaggio, molto bassi, e un Templare incappucciato, molto alto. Un clone offrì al Console il tradizionale bicchiere di succo d’arancia del dopo-fuga. Il Console lo accettò e bevve avidamente.
— L’Albero si trova a due minuti-luce e a cinque ore di viaggio da Hyperion — disse il Templare. Il Console vide che l’uomo era Het Masteen, capitano della nave-albero dei Templari e Vera Voce dell’Albero. Confusamente si rese conto che era un grande onore essere svegliato dal capitano in persona, ma era troppo disorientato e intontito dalla crio-fuga per apprezzarlo.
— Gli altri sono svegli da qualche ora — disse Het Masteen, ordinando con un gesto ai cloni di uscire. — Sono riuniti nella piattaforma da pranzo principale.
— Hhrghn — fece il Console. Bevve un sorso, si schiarì la gola e tentò di nuovo. — Grazie, Het Masteen — riuscì a dire. Si guardò intorno nella stanza ovoidale, vide il tappeto d’erba verde, le pareti trasparenti, le centine di supporto in legno ricurvo privo di giunzioni e capì di trovarsi in un piccolo scomparto ambientale. Chiuse gli occhi e cercò di ricordare l’appuntamento avvenuto appena prima che la nave templare passasse al balzo quantico.
Rammentò la prima occhiata alla nave-albero lunga un chilometro quando aveva accostato. I particolari erano confusi dalla macchina di ridondanza e dai campi di contenimento generati dagli erg che la circondavano come una nebbia sferica, ma la massa frondosa era chiaramente illuminata da migliaia di luci che risplendevano pallide tra le foglie e nei reparti ambientali dalle pareti sottili, o lungo le innumerevoli piattaforme, le passerelle, i ponti di comando, le scalette e i pergolati. Attorno alla base della nave-albero, sfere di manovra e di deposito simili a vesciche gonfie formavano un grappolo; in coda, i pennoni di propulsione azzurri e viola formavano una scia, come radici lunghe dieci chilometri.
— Gli altri attendono — disse piano Het Masteen, accennando ai bassi cuscini sui quali il bagaglio del Console era pronto ad aprirsi al suo comando. Il Templare si mise a fissare pensierosamente i travetti di legno weir, mentre il Console indossava un abbigliamento da mezza sera: ampi calzoni neri, lucidi stivali, camicia bianca di seta con maniche e cintola a sbuffo, colletto duro color topazio, giubbetto nero con le spalline a banda cremisi dell’Egemonia, floscio tricorno dorato. Una sezione della parete ricurva diventò uno specchio e il Console si osservò: un uomo che aveva già passato la mezz’età, abbronzato ma curiosamente pallido sotto gli occhi tristi. Si accigliò, annuì, distolse lo sguardo.
Het Masteen fece un gesto e il Console seguì l’alta figura dalla veste lunga, varcò il vano a dilatazione e percorse un passaggio pedonale in salita che s’incurvava fuori vista attorno alla massiccia parete-corteccia del fusto della nave-albero. Esitò, si accostò al bordo del passaggio pedonale, arretrò in fretta. C’era uno strapiombo di almeno seicento metri, privo di ringhiera… la sensazione di basso era data dalla gravità standard di 0,16 g prodotta dalle anomalie imprigionate alla base dell’albero.
Ripresero la salita in silenzio e, dopo trenta metri e mezza spirale, lasciarono il passaggio principale del tronco e attraversarono un fragile ponte sospeso che portava a una diramazione larga cinque metri. La seguirono verso l’esterno, fino al punto in cui la massa di foglie prendeva il sole di Hyperion.