Se avessi un’arma, potrei uccidere le guardie e
oh mio Dio cosa penso? Edouard, cosa devo fare?
Anche se sopravvivo a questa situazione… se torno a Keats… se mi procuro un passaggio per la Rete… chi mi crederebbe? Dopo nove anni d’assenza da Pacem… a causa del debito temporale prodotto dal balzo quantico… sarei solo un vecchio che torna con le stesse menzogne per cui è stato esiliato…
Oh, mio Dio, se distruggono i dati, concedimi di distruggere loro.
Giorno 110
Il terzo giorno hanno deciso la mia sorte.
Poco dopo mezzogiorno, Zed e un altro che chiamo Teta-primo sono venuti a prendermi. Ho battuto le palpebre, quando mi hanno portato fuori alla luce. I Tre Ventine e Dieci formavano un ampio semicerchio accanto all’orlo dello strapiombo. Ho pensato che mi avrebbero gettato di sotto, poi ho notato il falò.
Avevo sempre creduto che i Bikura fossero così primitivi da non conoscere più l’arte di accendere il fuoco. Non lo usavano per scaldarsi, e le loro capanne erano sempre buie. Non li ho mai visti cucinare un pasto, nemmeno gli arboricoli di cui qualche rara volta si cibavano. Ma ora il fuoco ardeva allegramente e solo loro potevano averlo acceso. Ho guardato con cosa lo alimentavano.
Bruciavano i miei indumenti, il mio comlog, i miei appunti, le cassette, i videochip, i dischi dati, l’olocamera… tutto ciò che conteneva delle documentazioni. Ho inveito contro di loro, ho cercato di avventarmi a spegnere il fuoco, li ho insultati con parole che non adoperavo più dagli anni in cui ero un ragazzo di strada. Mi hanno ignorato.
Alla fine Alfa mi è venuto vicino. «Diventerai del crucimorfo» ha detto con calma.
Non m’importava. Mi hanno ricondotto alla capanna e lì ho pianto per un’ora. Non ci sono guardie alla porta. Un minuto fa, sulla soglia, ho preso in esame la possibilità di correre a rifugiarmi nella foresta di fuoco, poi ho pensato a una corsa più breve, ma altrettanto fatale, verso la Fenditura.
Non ho fatto niente.
Manca poco al tramonto. Già il vento si alza. Presto. Presto.
Giorno 112
Sono trascorsi solo due giorni? È stata un’eternità.
Stamattina non si è staccato. Non si è staccato.
L’immagine dell’analizzatore medico è proprio qui di fronte a me, ma ancora non posso crederci. Eppure devo crederci. Sono del crucimorfo, ora.
Poco prima del tramonto sono venuti a prendermi. Tutti insieme. Non mi sono ribellato, mentre mi portavano all’orlo della Fenditura. Erano più agili di quanto credessi, nell’adoperare le liane. Li ho rallentati, ma sono stati pazienti, mi hanno mostrato i punti migliori dove mettere i piedi, la via più rapida.
Il sole di Hyperion, calato sotto le nuvole basse, era visibile al di sopra della parete rivolta a ovest, mentre percorrevamo gli ultimi metri per arrivare alla basilica. Il canto del vento serale era più intenso di quanto mi aspettassi: sembravamo intrappolati fra le canne di un enorme organo di chiesa. Le note andavano da un brontolio di basso così profondo da farmi vibrare ossa e denti, fino a uno stridio acuto e penetrante che scivolava negli ultrasuoni.
Alfa ha spalancato i battenti del portale esterno. Abbiamo attraversato il vestibolo e siamo entrati nella basilica centrale. I Tre Ventine e Dieci hanno formato un ampio cerchio attorno all’altare e all’alta croce. Non ci sono state litanie. Né canti liturgici. Né cerimonie. Siamo rimasti semplicemente lì, in silenzio, mentre il vento ruggiva all’esterno fra le colonne scanalate ed echeggiava nella grande sala scavata nella roccia… echeggiava, risonava, cresceva di volume, al punto che ho dovuto tapparmi le orecchie. E intanto i raggi del sole riempivano la sala di tonalità sempre più scure d’ambra, d’oro, d’azzurro e ancora d’ambra… colori così intensi da rendere l’aria torbida di luce, un velo di pittura aderente alla pelle. La croce ha raccolto la luce e l’ha trattenuta in ciascuna delle mille pietre preziose… anche, mi sembrò, dopo il tramonto, quando le finestre scolorivano in una penombra grigia. Sembrava che il grande crocifisso avesse assorbito la luce e la irradiasse su di noi, dentro di noi. Poi anche la croce è diventata scura e il vento è morto. Nell’improvvisa oscurità, Alfa ha detto a bassa voce: «Portiamolo con noi».
Siamo usciti sull’ampio ripiano di pietra; Beta era lì, munito di torce. Mentre le distribuiva ad alcuni individui scelti, mi sono domandato se i Bikura riservassero il fuoco a scopi rituali. Poi Beta ha fatto strada e siamo scesi lungo gli stretti scalini intagliati nella roccia.
All’inizio li ho seguiti lentamente, atterrito, aggrappandomi alla pietra levigata e cercando qualsiasi rassicurante sporgenza di radici o di pietre. L’abisso alla nostra destra era così ripido e senza fine da confinare quasi con l’assurdo. Scendere l’antica scalinata era molto peggio che lasciarsi penzolare dalle liane lungo la parete dello strapiombo. Qui dovevo guardare in basso ogni volta che posavo il piede sui gradini stretti e resi lisci dal tempo. Mettere il piede in fallo e precipitare, sembrava prima probabile, poi inevitabile.
Provai l’impulso di bloccarmi, di tornare almeno alla sicurezza della basilica, ma gran parte dei Tre Ventine e Dieci era dietro di me e non pensavo che si sarebbero scostati per farmi passare. Ma, ancor più della paura, provavo l’impellente curiosità di scoprire che cosa c’era in fondo alla scalinata. Mi sono soffermato quanto bastava per dare un’occhiata all’orlo della Fenditura, trecento metri più in alto: le nuvole erano scomparse, le stelle erano spuntate e nel cielo nero risplendeva come ogni notte il balletto delle scie delle meteoriti. Allora ho chinato la testa, ho cominciato a recitare sottovoce il rosario e ho seguito nell’abisso insidioso la luce delle torce e i Bikura.
Non credevo che la scalinata ci portasse fino in fondo alla Fenditura. Quando, dopo la mezzanotte, ho capito che saremmo scesi fino al fiume, ho creduto che non ci saremmo arrivati prima del mezzogiorno seguente. Mi sbagliavo.
Abbiamo raggiunto la base della Fenditura poco dopo il sorgere del sole. Le stelle ancora splendevano nel tratto di cielo fra le pareti dell’abisso che si ergevano a una distanza impossibile su entrambi i lati. Esausto, ho continuato a barcollare, un gradino dopo l’altro e, a poco a poco, mi sono accorto che non c’erano più scalini. Ho fissato il cielo e mi sono chiesto scioccamente se lì le stelle rimanessero visibili anche di giorno, come nel pozzo in cui m’ero calato da bambino a Villefranche-sur-Saône.
«Ecco» ha detto Beta. Era la prima parola pronunciata in molte ore; si è sentita appena, sopra il ruggito del fiume. I Tre Ventine e Dieci si sono fermati e sono rimasti immobili. Sono crollato sulle ginocchia e poi su un fianco. Non sarei riuscito a risalire la scalinata… né in un giorno, né in una settimana, forse mai. Ho chiuso gli occhi per dormire, ma il sordo combustibile della tensione nervosa continuava ad ardere dentro di me. Ho guardato dall’altra parte dell’abisso. Il fiume era più largo di quanto avessi previsto: almeno settanta metri da riva a riva. Il rumore era molto più che un semplice rombo: mi sono sentito consumato dal ruggito d’un animale enorme.
Mi sono alzato a sedere e ho fissato una chiazza di tenebra sulla parete opposta. Un’ombra più scura delle altre, più regolare del frastagliato mosaico di contrafforti, crepacci e colonne che variegava la parete a picco; un’ombra perfettamente quadrata, di almeno trenta metri di lato. Una porta, o un foro nella parete. Mi sono rialzato a fatica e ho guardato a valle del fiume, lungo la parete appena discesa: sì, eccola lì. L’altra entrata, quella verso cui Beta e gli altri già si dirigevano, era debolmente visibile alla luce delle stelle.