Avevo trovato un ingresso nel labirinto di Hyperion.
«Sapeva che Hyperion è uno dei nove mondi labirinto?» mi aveva chiesto qualcuno, sulla navetta. Sì, era stato il giovane prete di nome Hoyt. Avevo annuito e lasciato perdere l’idea. Ero interessato ai Bikura (in realtà, più per la sofferenza dell’esilio che mi ero inflitto da solo), non ai labirinti e a chi li aveva costruiti.
Nove mondi hanno un labirinto. Nove, fra centosettantasei mondi della Rete e altri duecento e passa pianeti delle colonie e del Protettorato. Nove mondi su oltre ottomila pianeti esplorati, pur superficialmente, dopo l’Egira.
Ci sono archeostorici planetari che dedicano la vita allo studio dei labirinti. Io, no. Li ho sempre considerati una materia sterile, vagamente irreale. Ora camminavo verso uno di questi labirinti con i Tre Ventine e Dieci; e il Kans ruggiva, vibrava e, con i suoi spruzzi, minacciava di spegnere le torce.
I labirinti sono stati scavati… perforati… creati anzi, quasi un milione d’anni standard fa. Le caratteristiche, è inevitabile, erano sempre le stesse; l’origine, un mistero mai risolto.
I pianeti labirinto sono sempre simili alla Terra, almeno 7,9 nella scala Solmev, e ruotano sempre attorno a una stella di tipo G; eppure si trovano sempre e solo su mondi tettonicamente morti, più simili a Marte che alla Vecchia Terra. I tunnel si trovano in profondità (in genere a un minimo di dieci chilometri; a volte anche a trenta) e traforano come catacombe l’intera crosta del pianeta. Su Svoboda, non lontano dal sistema di Pacem, mezzi teleguidati hanno esplorato più di ottocentomila chilometri di gallerie. In ogni pianeta labirinto i tunnel hanno una sezione di trenta metri quadrati e sono stati ottenuti grazie a tecnologie non ancora note all’Egemonia. Una volta, in una rivista archeologica, ho letto che Kemp-Höltzer e Weinstein postulano una “scavatrice a fusione” che spiegherebbe le superfici perfettamente levigate e la mancanza di incastri, ma la loro teoria non spiega da dove sono arrivati i Costruttori e le loro macchine, né il motivo per cui hanno dedicato secoli interi a un’opera d’ingegneria all’apparenza così inutile. Ciascun mondo labirinto, Hyperion incluso, è stato sondato ed esplorato. Non si è mai trovato niente. Nessun segno di macchinario da scavo, nessun elmetto arrugginito da minatore, non un solo pezzetto di plastica né i resti d’un pacchetto di sigarette. I ricercatori spesso non hanno neppure identificato i pozzi d’ingresso e d’uscita. Nessuna ipotesi sulla presenza di metalli pesanti o di minerali preziosi è bastata a spiegare una simile impresa monumentale. Nessuna leggenda, nessun manufatto dei Costruttori di Labirinti sono arrivati fino a noi. Nel corso degli anni mi sono interessato un poco a questo mistero, ma non da un punto di vista personale. Finora.
Siamo entrati nel tunnel. L’imboccatura non era un quadrato perfetto. L’erosione e la gravità, per un centinaio di metri dentro la parete dell’abisso, hanno trasformato in una rozza grotta quello che era stato un tunnel perfetto. Beta si è fermato dove il pavimento ridiventa liscio e ha spento la torcia. Gli altri Bikura l’hanno imitato.
Buio fitto. Il tunnel aveva fatto una curva sufficiente a tagliar fuori la luce delle stelle. Non era la prima volta che entravo in una caverna: spente le torce, non pensavo di abituarmi subito all’oscurità quasi totale. Invece è accaduto.
Nel giro di trenta secondi ho cominciato a percepire un chiarore roseo, dapprima fievole, poi sempre più intenso, più luminoso del cielo di Pacem sotto la sua luna una e trina. La luce proveniva da cento… mille… sorgenti. Sono riuscito a individuarne la causa proprio mentre i Bikura cadevano in ginocchio.
Le pareti e il soffitto della caverna erano incrostati di croci, di grandezza che variava da qualche millimetro a circa un metro. Ciascuna brillava di una propria luce intensa, rosa. Invisibili mentre le torce erano accese, le croci ora bagnavano di luce il tunnel. Mi sono accostato a una croce incastonata nella parete più vicina. Larga una trentina di centimetri, pulsava di un lucore morbido, organico. Non era un oggetto scolpito nella pietra o incastonato nella parete. Era una creatura organica, viva, simile a corallo morbido. E tiepida al tocco.
Ho sentito un lievissimo sussurro… no, non un suono, una specie di fremito nell’aria fredda, e mi sono girato in tempo per vedere che qualcosa entrava nella caverna.
I Bikura erano sempre inginocchiati; testa china, occhi bassi. Io sono rimasto in piedi. Non ho distolto un momento gli occhi dalla cosa che si muoveva fra i Bikura genuflessi.
La creatura aveva una vaga forma d’uomo, ma non era umana. Era alta almeno tre metri. Anche in posizione di riposo, la sua superficie argentata sembrava muoversi e fluire come mercurio sospeso a mezz’aria. Il chiarore rossastro delle croci incastonate nelle pareti del tunnel si rifletteva sulle superfici nette e rimbalzava sulle lame metalliche ricurve che sporgevano dalla fronte della creatura, dai quattro polsi, dai gomiti bizzarramente articolati, dalle ginocchia, dalla schiena corazzata e dal torace. La creatura è passata fra i Bikura, e quando ha teso quattro lunghe braccia, con le mani spalancate e le dite che scattavano in posizione con un rumore di bisturi cromati, mi ha assurdamente ricordato Sua Santità nell’atto di concedere la benedizione ai fedeli su Pacem.
Non avevo dubbi: stavo guardando il leggendario Shrike.
In quel momento devo essermi mosso, o devo aver provocato un rumore, perché due grandi occhi rossi si sono girati dalla mia parte e sono rimasto ipnotizzato dalla danza di luce nei prismi sfaccettati: non era una semplice luce riflessa, ma un crudele bagliore rosso sangue che sembrava ardere nel cranio uncinato della creatura e pulsare nelle terribili gemme poste dove Dio ha inteso che ci siano gli occhi.
Poi la creatura si è mossa… o meglio, non si è mossa, ma ha smesso di essere lì ed era qui, china a meno d’un metro da me, con le braccia bizzarramente articolate che mi circondavano con un recinto di lame e di lucido acciaio argentato. Ansimando forte, incapace di riprendere fiato, ho visto il riflesso del mio viso cereo e distorto danzare sulla superficie del guscio metallico della creatura e sugli occhi ardenti.
Confesso d’avere provato più esaltazione che paura. Si stava verificando qualcosa d’inspiegabile. Benché forgiato nella logica gesuitica e temprato nel freddo bagno della scienza, in quell’istante ho capito l’antica ossessione che un altro genere di paura prova di fronte al timor di Dio: il brivido dell’esorcismo, l’irragionevole roteare della possessione derviscia, il burattinesco rituale del Tarocco, la resa quasi erotica della seduta spiritica, la trance gnostica Zen. Ho capito in quell’istante con quanta sicurezza l’affermazione dei demoni o l’evocazione di Satana confermano la realtà della loro antitesi mistica, il Dio di Abramo.
Senza pensare a queste cose, ma sentendole tutte, ho aspettato l’abbraccio dello Shrike con l’impercettibile tremito d’una vergine sposa.
La creatura è scomparsa.
Senza nessuno scoppio di tuono, senza puzza improvvisa di zolfo, senza neppure il rumore scientificamente esatto dell’aria che si precipita in uno spazio lasciato vuoto. Un istante prima la creatura era lì, mi circondava con la meravigliosa certezza di morte delle sue lame affilate; l’istante dopo, era scomparsa.
Intontito, non mi sono mosso. Ho battuto le palpebre, mentre Alfa si alzava e s’accostava a me nella penombra degna del pennello di Bosch. Si è fermato dove poco prima c’era lo Shrike e ha teso le braccia in una patetica parodia della micidiale perfezione alla quale avevo appena assistito; ma sul suo viso mite da Bikura non c’era segno che avesse visto la creatura. Ha fatto un gesto goffo a mani aperte, che sembrava includere il labirinto, le pareti della caverna, le decine di croci luminose incastonate nella roccia.
«Crucimorfo» ha detto. I Tre Ventine e Dieci si sono alzati, si sono avvicinati, poi si sono inginocchiati di nuovo. Nella luce soffusa ho guardato la loro faccia mite e mi sono inginocchiato anch’io.