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Ogni giorno faccio un’analisi medica di me stesso. I nematodi rimangono… forse più fitti, forse no. Sono convinto che siano semplici parassiti, anche se il mio corpo non ha reagito alla loro presenza. Mi scruto la faccia, nella pozza accanto alla cascata e vedo solo gli stessi lineamenti affilati e sempre più vecchi che negli ultimi anni ho imparato a detestare. Stamattina, guardando il mio riflesso nell’acqua, ho spalancato la bocca con la mezza idea di scoprire, nel palato e in gola, filamenti grigi e grappoli di nematodi. Non c’era niente.

Giorno 117

I Bikura sono asessuati. Non casti, ermafroditi, sottosviluppati… ma semplicemente privi d’organi sessuali. Mancano di genitali esterni o interni, come la bambola di flussoschiuma d’una bambina. Non c’è segno che pene o testicoli o gli analoghi organi femminili si siano atrofizzati o siano stati alterati chirurgicamente. Non c’è segno che siano mai esistiti. L’urina passa attraverso un’uretra primitiva che termina in una piccola sacca contigua all’ano: una sorta di rozza cloaca.

Beta mi ha permesso d’esaminarlo. L’analizzatore medico ha confermato ciò che i miei occhi non riuscivano a credere. Anche Del e Teta si sono lasciati esaminare. Non ho più dubbi: tutti i Tre Ventine e Dieci sono ugualmente asessuati. Non c’è segno che siano stati… alterati. Direi che sono nati in questo modo, ma da quali genitori? E come contano di riprodursi, questi grumi asessuati di argilla umana? La risposta è certo legata al crucimorfo, chissà in che modo.

Terminata l’analisi medica dei Bikura, mi sono spogliato e ho esaminato me stesso. Il crucimorfo mi sporge dal petto come tessuto cicatriziale, ma sono sempre umano.

Per quanto ancora?

Giorno 133

Alfa è morto.

Ero con lui, tre mattine fa, quando è caduto. Ci trovavamo a circa tre chilometri a est del villaggio, in cerca di tuberi di chalma fra i grossi macigni nelle vicinanze della Fenditura. Per gran parte degli ultimi due giorni era piovuto e le rocce erano molto scivolose. Ho alzato lo sguardo giusto in tempo per vedere Alfa perdere l’appoggio e scivolare lungo un’ampia lastra di roccia giù nello strapiombo. Non ha gridato. L’unico rumore è stato il fruscio della veste contro la pietra, seguito dopo alcuni secondi da un tonfo nauseante da melone spiaccicato quando Alfa ha colpito una sporgenza, ottanta metri più sotto.

Ho impiegato un’ora per trovare il modo di scendere fino a lui. Già prima d’iniziare l’infida discesa, sapevo di essere troppo in ritardo per aiutarlo. Ma era mio dovere.

Il corpo di Alfa era incuneato per metà fra due grossi sassi. Il Bikura era certo morto sul colpo. Braccia e gambe erano rotte; la parte destra del cranio, schiacciata. Sangue e materia cerebrale impiastravano la roccia bagnata, simili ai rifiuti di un triste picnic. Ho pianto, fermo davanti al cadavere della piccola creatura. Non so perché, ma ho pianto. E mentre piangevo, gli ho somministrato l’estrema unzione e ho pregato Iddio d’accogliere l’anima di quel poveretto privo di sesso. Più tardi ho avvolto in alcune liane il cadavere, ho risalito faticosamente gli ottanta metri di scarpata e, fermandomi di frequente per riprendere fiato, ho portato con me quei resti maciullati.

Al villaggio, i Bikura hanno mostrato scarso interesse per il cadavere di Alfa. Alla fine Beta e alcuni altri si sono avvicinati e hanno fissato con indifferenza i miseri resti. Nessuno ha chiesto com’era morto. Dopo qualche minuto, la piccola folla si è dispersa.

Più tardi ho portato il cadavere di Alfa al promontorio dove, tante settimane fa, avevo seppellito Tuk. Stavo scavando con una pietra piatta una fossa poco profonda, quando è comparso Gamma. Il Bikura ha spalancato gli occhi e per un istante ho creduto di scorgere sul suo viso mite un’emozione.

«Cosa fai?» mi ha chiesto.

«Lo seppellisco.» Ero troppo stanco per dire dell’altro. Mi sono appoggiato a una grossa radice di chalma per riposarmi.

«No.» Era un ordine. «È del crucimorfo.»

Lo fissai, mentre si girava e tornava in fretta al villaggio. Scomparso il Bikura, tirai via il rozzo telo di fibra che avevo steso sul cadavere.

Indubbiamente Alfa era morto. Non importava più, a lui e a tutto l’universo, se era o no del crucimorfo. La caduta l’aveva spogliato di gran parte degli indumenti e di tutta la dignità. Il lato destro del cranio era rotto e vuoto come il guscio d’un uovo per la prima colazione. Un occhio fissava cieco il cielo di Hyperion attraverso un velo che s’ispessiva; l’altro guardava pigramente da sotto la palpebra socchiusa. La cassa toracica era così fracassata che schegge d’osso sporgevano dalla pelle. Le braccia erano rotte; la gamba sinistra quasi staccata. Avevo usato l’analizzatore medico per eseguire meccanicamente l’autopsia, che aveva rivelato notevoli lesioni interne: anche il cuore di quel disgraziato si era ridotto in poltiglia per l’impatto della caduta.

Ho allungato la mano a toccare la carne fredda. Cominciava a manifestarsi il rigor mortis. Ho sfiorato la cicatrice a forma di croce sul petto e ho ritratto di scatto la mano. Il crucimorfo era tiepido.

«Fatti da parte.»

Ho alzato gli occhi: Beta e gli altri Bikura erano fermi davanti a me. Non dubitavo che m’avrebbero ucciso nel giro d’un secondo, se non mi fossi allontanato dal cadavere. Mentre mi scostavo, m’è venuto in mente un pensiero sciocco e spaventoso: i Tre Ventine e Dieci erano adesso i Tre Ventine e Nove. Mi è sembrato buffo, in quel momento.

I Bikura hanno raccolto il cadavere e si sono diretti al villaggio. Beta ha guardato il cielo, poi me.

«È quasi ora» ha detto. «Tu vieni.»

Siamo scesi nella Fenditura. Il cadavere è stato legato con cura in un cesto di liane e calato con noi.

Il sole non illuminava ancora l’interno della basilica, quando hanno deposto sul grande altare il cadavere di Alfa e gli hanno tolto gli ultimi stracci.

Non so cosa mi aspettassi… forse un atto di cannibalismo rituale. Niente mi avrebbe sorpreso. Invece, un Bikura ha sollevato le braccia proprio mentre i primi raggi di luce colorata entravano nella basilica e ha intonato: «Seguirai la croce per tutti i tuoi giorni».

I Tre Ventine e Dieci si sono inginocchiati e hanno ripetuto le parole. Io sono rimasto in piedi. Non ho aperto bocca.

«Sarai del crucimorfo per tutti i tuoi giorni» ha detto il piccolo Bikura, e nella basilica è echeggiato un coro di voci che ripetevano la frase. La luce, del colore e della consistenza del sangue coagulato, ha gettato sulla parete opposta l’enorme ombra della croce.

«Sarai del cruciforme ora e sempre e per sempre» ha continuato la salmodia, mentre all’esterno il vento cresceva e le canne d’organo del canyon gemevano con la voce di un bimbo torturato.

I Bikura hanno smesso di salmodiare, ma io non ho mormorato: «Amen». Sono rimasto lì, mentre gli altri si giravano e uscivano con l’improvvisa e totale indifferenza dei bambini viziati che hanno perso interesse nel gioco.

«Non c’è motivo di restare» ha detto Beta quando gli altri si sono allontanati.

«Voglio trattenermi» ho risposto, aspettando che mi ordinasse di uscire. Senza neppure una scrollata di spalle, Beta si è invece girato e mi ha lasciato lì. La luce è diventata più fioca. Sono uscito a guardare il tramonto. Al rientro, era iniziato.

Una volta, anni fa, a scuola, ho visto una sequenza olografica che mostrava la decomposizione di un ratto canguro. Il lento lavoro di riciclaggio compiuto in una settimana dalla natura era stato accelerato in trenta secondi d’orrore: l’improvviso, quasi comico, rigonfiamento del piccolo cadavere, la conseguente comparsa di lesioni sulla carne tesa, seguita dalla presenza improvvisa di larve nella bocca, negli occhi, nelle ferite aperte; e infine la repentina e incredibile caduta a spirale della carne dalle ossa — non c’è altra frase che si adatti all’immagine — quando la truppa di vermi si era mossa da destra a sinistra, dalla testa alla coda, in un’elica di consumo della carogna che aveva lasciato solo ossa, cartilagini e pelle.