Giorno dopo giorno ho cercato di lasciare la zona della Fenditura; giorno dopo giorno ho patito un dolore così orribile che ormai è diventato parte tangibile del mio mondo, come il sole troppo piccolo o il cielo verde e celeste. Il dolore è il mio alleato, l’angelo custode, il legame residuo con l’umanità. Al crucimorfo non piace. A me nemmeno; ma, come il crucimorfo, sono pronto a servirmene per i miei scopi. E lo faccio coscientemente, non per istinto, come la massa di tessuti priva di cervello conficcata dentro di me. Questa cosa, nella sua mancanza d’intelligenza, cerca solo di evitare a ogni costo la morte. Io non voglio morire, ma accolgo con gioia il dolore e la morte, alternativa a un’eternità di vita irragionevole. La vita è sacra (lo considero ancora l’elemento basilare del pensiero e degli insegnamenti della Chiesa, in questi ultimi duemila e ottocento anni in cui la vita stessa ha avuto così poco valore) ma l’anima è ancora più sacra.
Capisco ora che cosa cercavo di fare con i dati scoperti su Armaghast: volevo offrire alla Chiesa non una rinascita, ma solo la transizione a una falsa vita, come quella ospitata da questi poveri cadaveri ambulanti. Se la Chiesa deve morire, che il destino si compia… ma in modo glorioso, nella piena coscienza della rinascita in Cristo. Scompaia pure nelle tenebre; non volentieri, ma bene, con coraggio e con fede incrollabile, come i milioni che ci hanno preceduto, mantenendo la parola data a tutte le generazioni che hanno affrontato la morte nell’isolamento e nel silenzio dei campi di sterminio e sotto le bombe nucleari, nei reparti per i tumori terminali e nei pogrom; e vada nelle tenebre, se non con speranza, almeno con la convinzione che ci sia una ragione per tutto, qualcosa che valga il prezzo di tutto il dolore, di tutti i sacrifici. Chi ci ha preceduto, è andato nelle tenebre senza l’assicurazione della logica, né dei fatti, né di teorie convincenti, ma solo con un esile filo di speranza, o con il sostegno fin troppo fragile della fede. E se è stato in grado di mantenere di fronte alle tenebre quest’esile speranza, allora anch’io devo riuscirci… e, come me, la Chiesa.
Non credo più che cure e interventi chirurgici possano liberarmi dell’organismo che mi infesta; ma se qualcuno potrà separarlo, studiarlo e distruggerlo, anche a costo della mia morte, sarò più che contento.
La foresta di fuoco è tranquilla come non mai. Ora, a letto. Me ne andrò prima dell’alba.
Giorno 215
Non c’è via d’uscita.
Quattordici chilometri nella foresta. Fuochi vaganti e scoppi di energia, ma si può traversare. Tre settimane di cammino mi sarebbero bastate ad attraversarla.
Il crucimorfo non mi lascia andare.
Il dolore era simile a un infarto continuato. Eppure ho proseguito barcollando, inciampando, strisciando nella cenere. A un certo punto ho perso conoscenza. Quando sono rivenuto, strisciavo verso la Fenditura. Mi giro, cammino per un chilometro, striscio per cinquanta metri, perdo di nuovo conoscenza e mi sveglio da dove ho iniziato. Questa folle battaglia con il mio corpo è durata tutto il giorno.
Prima del tramonto i Bikura sono entrati nella foresta, mi hanno trovato a cinque chilometri dalla Fenditura e mi hanno portato indietro di peso.
Dio mio, perché hai permesso che accadesse?
Ora non c’è più speranza, a meno che qualcuno non venga a cercarmi.
Giorno 223
Nuovo tentativo. Nuovo dolore. Nuovo fallimento.
Giorno 257
Oggi compio sessantotto anni standard. Il lavoro procede, nella cappella che costruisco accanto alla Fenditura. Ieri ho provato a scendere fino al fiume, ma sono stato bloccato da Beta e da altri quattro.
Giorno 280
Un anno locale su Hyperion. Un anno di purgatorio. O d’inferno?
Giorno 311
Lavorando nella cava di pietra del costone sotto la sporgenza dove sorgerà la cappella, oggi ho fatto una scoperta: ho trovato le barre parascariche. I Bikura devono averle buttate giù quando hanno assassinato Tuk, quella notte di duecento e ventitré giorni fa.
Le barre mi permetterebbero di penetrare in qualsiasi momento nella foresta di fuoco, se il crucimorfo lo permettesse. Ma non lo permetterà. Se solo i Bikura non avessero distrutto il kit medico con gli analgesici! Eppure, mentre me ne sto qui seduto a reggere le barre, ho un’idea.
Ho continuato i miei rozzi esperimenti con l’analizzatore medico. Due settimane fa, quando Teta si è rotto la gamba in tre punti, ho studiato la reazione del crucimorfo. Il parassita ha fatto del suo meglio per eliminare il dolore; Teta è rimasto svenuto gran parte del tempo, mentre il suo organismo produceva una quantità incredibile di endorfine. Ma la frattura era molto dolorosa: dopo quattro giorni, i Bikura hanno sgozzato Teta e hanno portato il corpo nella basilica. Per il crucimorfo era più facile risuscitare il cadavere che sopportare a lungo un simile dolore. Ma, prima che uccidessero Teta, l’analizzatore ha mostrato che i nematodi del crucimorfo si erano ritirati in maniera apprezzabile da alcune zone del sistema nervoso.
Non so se sia possibile infliggersi, o sopportare, un dolore non mortale di livello sufficiente a scacciare il crucimorfo. Ma sono certo di una cosa: i Bikura non lo permetterebbero.
Oggi siedo sul costone sotto la cappella a metà terminata e medito su questa possibilità.
Giorno 438
La cappella è terminata. L’opera della mia vita.
Stasera, quando i Bikura sono scesi nella Fenditura per la loro quotidiana parodia di adorazione, ho detto Messa all’altare della cappella appena eostruita. Ho infornato il pane ottenuto con farina di chalma ed ero certo che avrebbe avuto il sapore di quelle foglie gialline; ma per me il suo gusto è stato esattamente uguale a quello della Particola della prima comunione, a Villefranche-sur-Saône, una sessantina d’anni standard fa.
Domattina eseguirò il mio piano. Tutto è pronto: i diari e le lastre dell’analizzatore medico sono nella sacca di fibre di besto. Ho fatto il massimo.
Il vino consacrato era solo acqua, ma nella fioca luce del tramonto sembrava rosso sangue e aveva il sapore del vino della comunione.
Il trucco è quello di penetrare abbastanza profondamente nella foresta di fuoco. Confido che gli alberi di tesla siano abbastanza attivi anche nei periodi di tranquillità.
Addio, Edouard. Non credo che tu sia ancora in vita, ma anche se mi sbagliassi, non vedo come sia possibile poterci riunire, separati come siamo non solo da anni di distanza, ma da un abisso più ampio in forma di croce. Non ripongo in questa vita, ma in quella a venire, la speranza di rivederti. Buffo, vero, sentirmi parlare ancora a questo modo? Devo dirti, Edouard, che dopo tutti questi decenni d’incertezza, nonostante il grande timore per quel che ci aspetta, il mio cuore e la mia anima sono tuttavia in pace.
Le ventiquattro.
La luce del tramonto entra dalla finestra spalancata della cappella e bagna l’altare, il calice rozzamente intagliato e me. Dalla Fenditura il vento si alza nell’ultimo coro che, con un po’ di fortuna e con la misericordia di Dio, mi toccherà sentire.