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— Sì — disse. Inspirò a fondo. — Ma prima il resto della storia.

Hoyt lo fissò e allungò debolmente la mano verso l’iniettore.

Cominciando a sua volta a sudare, il Console tenne lo strumento appena fuori portata. — Sì, fra un istante — disse. — Prima termini il racconto. È importante che io sappia tutto.

— Oh Dio, Dio mio! — singhiozzò Hoyt. — Per favore!

— Sì, certo. Appena avrà detto la verità.

Padre Hoyt crollò sugli avambracci, respirando a fatica. — Maledetto bastardo — boccheggiò. Fece alcuni respiri profondi, ne trattenne uno finché non smise di tremare e tentò di mettersi a sedere. Quando guardò il Console, aveva una luce simile al sollievo, negli occhi impazziti. — Poi… mi darà… l’iniezione?

— Sì — rispose il Console.

— D’accordo — riuscì a dire Hoyt con un mormorio acido. — La verità. Piantagione Perecebo… come ho detto. Siamo partiti… i primi d’ottobre… di Lycius… otto anni dopo… la scomparsa di Duré. Oh, Cristo, fa male! Alcol ed endovene non funzionano più. Solo… ultramorfina pura…

— Sì — mormorò il Console. — È pronta. Appena terminata la storia.

Il prete abbassò la testa. Il sudore gli gocciolò dalle guance e dal naso, cadde sull’erba. L’uomo tese i muscoli come se volesse scagliarsi all’attacco, poi fu preso da un altro spasmo doloroso e cadde in avanti. — Lo skimmer non fu distrutto… dagli alberi tesla. Semfa, due uomini e io… siamo scesi vicino alla Fenditura… mentre Orlandi cercava a monte del fiume. Il suo skimmer… ha dovuto aspettare che la tempesta di fulmini si calmasse.

“I Bikura arrivarono nella notte. Uccisero… uccisero Semfa, il pilota, l’altro uomo… ho dimenticato il nome. Mi hanno lasciato… in vita. — Hoyt allungò la mano verso il crocifisso e capì d’esserselo strappato. Cominciò a ridere, ma si fermò prima che la risata si tramutasse in singhiozzi. — Mi hanno parlato… della via della croce. Del crucimorfo. Mi hanno parlato… del Figlio delle Fiamme.

“Il mattino dopo, mi hanno portato a vedere il Figlio. Mi hanno portato… a vederlo. — Si alzò a fatica e si graffiò le guance. Aveva gli occhi sbarrati: era chiaro che, nonostante il dolore, aveva dimenticato l’ultramorfina. — Circa tre chilometri nella foresta di fuoco… grandi tesla… alti almeno ottanta, cento metri. In quiete, al momento… ma ancora un mucchio di tensione nell’aria. Cenere dappertutto.

“I Bikura non volevano… avvicinarsi troppo. Si sono messi in ginocchio, hanno chinato la loro maledetta testa calva. Ma io… io mi sono avvicinato… dovevo farlo. Dio mio… Oh, Cristo, era lui. Duré. Quel che restava di lui.

“Aveva usato una scaletta a pioli per salire… forse quattro metri… su per il tronco dell’albero. Costruito una sorta di piattaforma. Per i piedi. Ha spezzato le barre parascariche… poco più che chiodi… poi le ha appuntite. Deve avere usato una pietra, per conficcarsi nei piedi la più lunga, per piantarla nella piattaforma di besto e nell’albero.

“Il braccio sinistro… ha piantato il chiodo fra radio e ulna… ha evitato le vene… proprio come i maledetti romani. Molto sicuro, finché lo scheletro resta intatto. L’altra mano… la destra… a palmo in giù. Aveva conficcato prima il chiodo. Appuntito dalle due parti. Poi… aveva impalato la destra. In qualche modo aveva piegato il chiodo. A uncino.

“La scaletta è caduta… molto tempo prima… Ma era di besto. Non era bruciata. Me ne sono servito per salire fino a lui. Tutto era bruciato anni prima… abiti, pelle, strato esterno di carne… ma non la sacca di besto intorno al collo.

“I chiodi di fibrolega conducevano ancora la corrente, anche quando… Potevo vederla… sentirla… scorrere attraverso quel che restava del corpo.

Sembrava ancora padre Duré. Importante. L’ho detto al monsignore. Niente pelle. Carne viva o bruciata. Nervi e altre cose in piena vista… simili a radici gialle e grigie. Cristo, la puzza! Ma sembrava ancora padre Duré!

“Allora ho capito. Ho capito tutto. Chissà come… anche prima di leggere i diari. Ho capito che era rimasto appeso lì… oh, Dio mio… sette anni. Vivo. Moribondo. Il crucimorfo… lo costringeva a rivivere. L’elettricità… che scorreva in lui ogni secondo di quei… quei maledetti sette anni. Fiamme. Fame. Dolore. Morte. Ma chissà come, il maledetto… crucimorfo… forse risucchiava sostanza dall’albero, dall’aria, dai resti… rigenerava quel che poteva… costringendolo a vivere, a sentire il dolore, ancora e ancora e ancora…

“Ma lui ha vinto. Il dolore era il suo alleato. Oh, Gesù, non qualche ora sull’albero e poi la lancia e il riposo, ma sette anni!

“Però… ha vinto. Quando gli ho tolto la sacca, è caduto anche il crucimorfo che aveva sul petto. Poi quella cosa… quella cosa che non poteva non essere un cadavere… quell’uomo ha sollevato la testa. Niente palpebre. Occhi bianco bollito. Niente labbra. Ma mi ha guardato e ha sorriso. Lui ha sorriso. Ed è morto… è morto davvero… fra le mie braccia. La decimillesima morte, ma quella vera, alla fine. Mi ha sorriso ed è morto.”

Hoyt s’interruppe, accomunato nel silenzio al proprio dolore; poi riprese, stringendo ogni tanto i denti. — I Bikura… mi riportarono… alla Fenditura. Orlandi arrivò il giorno dopo. Mi salvò. Lui… Semfa… non potevo… ha distrutto con il laser il villaggio, ha bruciato i Bikura lì dov’erano, come stupide pecore. Non ho… non ho discusso con lui. Ho riso. Dio mio, perdonami. Orlandi ha raso al suolo la zona, con le cariche atomiche sagomate che usavano… per ripulire la giungla… matrice fibroplastica.

Hoyt guardò negli occhi il Console e fece un gesto contorto con la destra. — Gli analgesici hanno funzionato bene all’inizio. Ma ogni anno… ogni giorno… diventa peggio. Anche in crio-fuga… il dolore. Dovevo tornare comunque. Come ha fatto, lui, a… sette anni! Oh, Gesù! — Artigliò il tappeto.

Il Console si mosse in fretta: gli iniettò proprio sotto l’ascella l’intera fiala di ultramorfina, lo afferrò al volo mentre crollava privo di conoscenza, lo adagiò gentilmente per terra. Con la vista annebbiata, strappò la camicia madida di Hoyt e gettò da parte gli stracci. Era lì, ovviamente, sotto la pelle livida del torace, simile a un grande, vivido verme a forma di croce. Il Console fece un respiro profondo e con delicatezza rigirò il prete. Il secondo crucimorfo era dove si aspettava di trovarlo: una cicatrice in rilievo, un po’ più piccola e a forma di croce, fra le scapole. Tremolò lievemente quando le dita del Console sfiorarono la carne febbricitante.

Il Console si mosse con lentezza ma con efficienza: radunò gli oggetti del prete, mise a posto la stanza, vestì l’uomo ancora svenuto con la stessa cura che si userebbe nel vestire un familiare morto.

Il comlog ronzò. — Dobbiamo partire — disse la voce del colonnello Kassad.

— Veniamo subito — rispose il Console. Batté sul comlog la chiamata per alcuni cloni d’equipaggio che trasportassero i bagagli, ma tirò su personalmente padre Hoyt. Gli sembrò che il prete non pesasse nulla.

La porta dello scompartimento si dilatò; il Console uscì e passò dall’ombra profonda del ramo alla luminosità verdazzurra del pianeta che riempiva il cielo. Pensando alla storia di copertura da raccontare agli altri, si fermò a dare una seconda occhiata al viso dell’uomo addormentato. Scoccò uno sguardo a Hyperion e continuò. Anche se il campo gravitazionale fosse stato uguale a quello terrestre, capì il Console, il corpo fra le sue braccia non sarebbe stato un peso.