Выбрать главу

Un tempo genitore di un bambino ora morto, il Console andò avanti e provò ancora una volta la sensazione di portare a letto un figlio addormentato.

2

A Keats, capitale di Hyperion, la giornata era stata calda e piovosa; cessata la pioggia, era rimasta una coltre di nuvole che si muovevano lentamente e pesantemente sulla città e l’aria era impregnata del profumo salmastro dell’oceano lontano venti chilometri a ovest. Verso sera, mentre la grigia luce del giorno svaniva nel crepuscolo grigio, un doppio bang sonico scosse la città e poi echeggiò contro la vetta scolpita della montagna isolata, a sud. Le nubi brillarono di una luce biancazzurra. Mezzo minuto dopo, un’astronave color ebano squarciò il cielo nuvoloso e scese cautamente sulla coda di fiamma, mentre le luci di navigazione palpitavano, rosse e verdi, contro il grigiore.

A mille metri, i fari d’atterraggio del vascello spaziale si accesero; tre raggi di luce coerente color rubino emessi dallo spazioporto a nord della città circondarono la nave in un triplice abbraccio di benvenuto. L’astronave rimase sospesa a trecento metri d’altezza, scivolò orizzontalmente con la stessa scioltezza d’un boccale su un bancone bagnato, poi si adagiò priva di peso in un pozzo di scarico in attesa.

Getti d’acqua ad alta pressione bagnarono il pozzo e la base dell’astronave, provocando nuvole di vapore che si mescolarono alle cortine d’acquerugiola spinte dal vento sulla piana asfaltata dello spazioporto. Quando i getti d’acqua cessarono, gli unici rumori furono il mormorio della pioggia e i rari ticchettii o scricchiolii prodotti dalla nave che si raffreddava.

Venti metri sopra il pozzo, dalla paratia dell’astronave venne fuori una loggia. Ne uscirono cinque figure.

— Grazie per il passaggio, signore — disse al Console il colonnello Kassad.

Il Console rispose con un cenno, si appoggiò alla ringhiera e inalò a pieni polmoni l’aria fresca. Goccioline di pioggia gli imperlarono le spalle e le sopracciglia.

Sol Weintraub tolse dal porta-neonati la figlioletta. Qualcosa… un cambiamento nella pressione o nella temperatura, odori, movimento, rumori, o tutto insieme… l’aveva svegliata; la piccina cominciò a piangere forte. Weintraub la cullò e la coccolò, ma lei continuò a strillare.

— Un commento appropriato al nostro arrivo — disse Martin Sileno. Il poeta indossava un lungo mantello viola e un berretto rosso inclinato sulla spalla destra. Bevve un sorso dal bicchiere di vino che si era portato dalla saletta bar. — Cristo in croce! Questo posto sembra tutto diverso.

Il Console, che mancava da lì soltanto da otto anni locali, fu costretto a convenirne. Durante la sua permanenza a Keats, l’astroporto si trovava a nove chilometri buoni dalla città; ora il perimetro del campo d’atterraggio era circondato da baracche, tende e stradine fangose. Ai tempi del Console, nel piccolo spazioporto non scendeva più di una nave a settimana; adesso ce n’erano venti e passa. La palazzina con gli uffici amministrativi e doganali era stata sostituita da un enorme edificio prefabbricato; una decina di nuovi pozzi di scarico e di griglie per le navette era stata aggiunta nella zona ovest, occupata per ampliare frettolosamente il campo, il cui perimetro adesso era ingombro di ventine di moduli a copertura mimetica, adatti a qualsiasi cosa, dalle stazioni di controllo a terra ai baraccamenti. Una foresta di bizzarre antenne si alzava verso il cielo da un altro gruppo di scatoloni identici nella zona più lontana del campo d’atterraggio.

— Progresso — mormorò il Console.

— Guerra — disse il colonnello Kassad.

— Ma quelle sono persone! — disse Brawne Lamia, indicando i cancelli del terminal principale, sul lato sud del campo. Un’onda di colori smorti sbatteva come frangenti silenziosi contro la barriera esterna e il campo di contenimento viola.

— Dio mio — disse il Console. — Ha ragione.

Kassad estrasse il binocolo e a turno fissarono le migliaia di figure che premevano contro il recinto e il campo respingente.

— Perché sono qui? — domandò Lamia. — Cosa vogliono?

Anche da mezzo chilometro di distanza, l’irrazionale volontà della folla intimidiva. Sagome scure, i marine della FORCE, pattugliavano l’interno del perimetro. La striscia di terra spoglia fra il filo spinato, il campo di contenimento e i marine indicava quasi certamente che la zona era minata, o percorsa da raggi della morte, o tutt’e due.

— Cosa vogliono? — ripeté Lamia.

— Andarsene — rispose Kassad.

Ma il Console aveva già capito che i baraccamenti intorno allo spazioporto e la folla ai cancelli erano inevitabili: la popolazione di Hyperion era pronta ad andarsene. A ogni atterraggio d’astronave, si disse, si verificava certo un’analoga pressione silenziosa contro i cancelli.

— Be’, laggiù c’è qualcuno che rimarrà — disse Martin Sileno indicando la bassa montagna al di là del fiume, verso sud. — Il Vecchio Piagnone William Rex, che Dio abbia in gloria la sua anima peccatrice. — La faccia scolpita di re Billy il Triste era appena visibile fra la pioggia sottile nell’oscurità incipiente. — Io lo conobbi, Horatio — declamò il poeta, ubriaco. — Uomo di scherzi infiniti. Non uno dei quali divertente. Una vera testa di cazzo, Horatio.

Sol Weintraub si era fermato appena dentro il vano, per riparare dalla pioggia la piccina e impedire al suo pianto di disturbare la conversazione. Indicò due veicoli in movimento. — Abbiamo visite — disse.

Un automezzo di terra, con il polimero mimetico spento, e un VEM militare modificato con alcuni ventagli sospesi per adeguarlo al debole campo magnetico di Hyperion stavano attraversando la distesa bagnata.

Martin Sileno non staccò lo sguardo dal viso tetro di re Billy il Triste. A voce tanto bassa che si sentiva appena, declamò:

Nella profonda tristezza ombrosa d’una valle sprofondata lontano dal salutare alito del mattino, dall’infocato mezzodì e dall’unica stella della sera, sedeva il brizzolato Saturno, quieto come pietra, muto come il silenzio intorno al suo covo; foreste e foreste gli pendevano sul capo come nuvole su nuvole…

Padre Hoyt uscì sulla loggia e si strofinò il viso. Gli occhi spalancati e confusi gli davano l’aspetto d’un bambino che si era appena svegliato. — Siamo arrivati? — chiese.

— Cazzo che sì — esclamò Martin Sileno. Restituì al colonnello il binocolo. — Scendiamo a salutare i gendarmi.

Il giovane tenente dei marine non sembrò impressionato, dopo che ebbe esaminato la scheda d’autorizzazione del comandante dell’unità operativa trasmessagli da Het Masteen. Controllò con calma i chip dei visti, lasciando che i nuovi venuti aspettassero Sotto la pioggia; ogni tanto faceva un commento, con l’indolente arroganza comune ai nessuno del suo stampo appena ottengono un briciolo d’autorità. Arrivato al chip di Fedmahn Kassad, alzò gli occhi con l’espressione di una volpe sorpresa. — Colonnello Kassad! — disse.

— In pensione.

— Mi scusi, signore — disse il tenente, inciampando nelle parole, mentre restituiva i visti. — Non sapevo che si trovasse in questo gruppo, signore. Cioè… il capitano ha appena detto… voglio dire… mio zio era con lei su Bressia, signore. Ah, mi spiace… qualsiasi cosa io e i miei uomini possiamo fare per lei…

— Tranquillo, tenente — disse Kassad. — È possibile trovare un mezzo di trasporto per la città?

— Ah… be’, signore… — Il giovane marine alzò la mano per strofinarsi il mento, poi ricordò d’avere il casco. — Sissignore. Ma il guaio è, signore, che la folla può diventare molto pericolosa e… be’, i maledetti VEM non funzionano una merda su questo… uh, scusi, signore. Vede, i trasporti via terra sono limitati alle merci e non abbiamo skimmer liberi di lasciare la base prima delle 22; ma sarei lieto di includere il suo gruppo nell’elenco per…