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— La mia nave è stata portata fuori del magazzino? — domandò il Console.

— Si trova nella sfera 11, pronta e rifornita di carburante — rispose Het Masteen. Passarono nell’ombra del tronco e le stelle comparvero nelle chiazze nere fra lo scuro graticcio di foglie. — Gli altri pellegrini sono disposti a compiere il viaggio sulla sua nave, se le autorità della FORCE lo permettono — aggiunse il Templare.

Il Console si sfregò gli occhi e rimpianse di non avere avuto più tempo per riaversi dalla gelida prigione della crio-fuga. — Si è messo in contatto con il reparto operativo?

— Oh, certo. Ci hanno bloccato appena siamo emersi dal balzo quantico. Un incrociatore dell’Egemonia ci… scorta… in questo preciso momento. — Het Masteen indicò, in alto, una chiazza di cielo.

Il Console guardò a occhi socchiusi, ma in quell’attimo segmenti delle file superiori di rami girarono per uscire dall’ombra del tronco e acri di foglie si accesero delle sfumature del tramonto. Nelle zone ancora in ombra, uccelli lucenti annidati come lanterne giapponesi sopra passaggi illuminati, lucide liane mobili, rischiaravano i ponti sospesi, mentre lucciole provenienti dalla Vecchia Terra e splendenti ragnatelidi originari di Patto-Maui palpitavano e codificavano la propria strada nel labirinto di foglie, mischiandosi alle costellazioni quanto bastava a ingannare anche il più provetto viaggiatore.

Het Masteen entrò in un cesto di sollevamento che pendeva da un cavo di fibrocarbonio e scompariva nei trecento metri di albero più in alto. Il Console lo seguì e salirono in silenzio. Il Console notò che i passaggi pedonali, i reparti ambientali e le piattaforme erano deserti, a parte alcuni Templari e le loro minuscole controfigure clonate che fungevano da equipaggio. Ricordò di non avere visto passeggeri, durante l’ora fra l’appuntamento e la crio-fuga ma, data l’imminenza del balzo quantico della nave-albero, aveva pensato che i passeggeri si trovassero al sicuro nella loro cuccetta. Ora, però, la nave-albero viaggiava molto al di sotto delle velocità relativistiche e i suoi rami avrebbero dovuto brulicare di passeggeri ammirati. Ne parlò al Templare.

— Voi sei siete i soli passeggeri — rispose Het Masteen. Il cesto si fermò in un labirinto di fronde e il capitano precedette il Console su per una scala mobile di legno consumata dal tempo.

Il Console batté le palpebre, sorpreso. Una nave-albero dei Templari portava di norma da due a cinquemila passeggeri: era quello, senza dubbio, il più piacevole modo di viaggiare fra le stelle. Le navi-albero di rado accumulavano un debito temporale superiore ai quattro, cinque mesi; compivano brevi e spettacolari traversate nelle zone in cui i sistemi stellari distavano fra loro alcuni anni-luce, permettendo così ai ricchi passeggeri di trascorrere in crio-fuga il minimo periodo indispensabile. Il viaggio a Hyperion e il ritorno avrebbero accumulato un debito temporale pari a sei anni della Rete: la mancanza di passeggeri paganti rappresentava per i Templari una perdita finanziaria sbalorditiva.

Poi il Console capì, tardivamente, che la nave-albero sarebbe stata il mezzo ideale per l’evacuazione in programma e che alla fine l’Egemonia avrebbe rimborsato le spese. Tuttavia, portare in zona di guerra una nave-albero bella e vulnerabile come la Yggdrasill — ne esistevano solo cinque, di quel tipo — era un rischio terribile, per la Confraternita dei Templari.

— I pellegrini suoi colleghi — annunciò Het Masteen quando emerse con il Console in un’ampia piattaforma dove, all’estremità di un lungo tavolo di legno, era in attesa un gruppetto di persone. In alto le stelle ardevano e di tanto in tanto ruotavano, quando la nave cambiava l’angolo d’imbardata; ai lati, una sfera continua di fogliame s’incurvava come la buccia verde d’un grande frutto. Il Console riconobbe immediatamente il locale, ossia la piattaforma da pranzo del capitano, prima ancora che gli altri cinque passeggeri si alzassero per lasciare a Het Masteen il posto a capotavola. Il Console individuò la sedia vuota prevista per lui alla sinistra del capitano.

Quando tutti si furono accomodati in silenzio, Het Masteen passò alle presentazioni. Il Console non conosceva di persona nessuno degli altri, ma aveva già sentito parlare di loro e sfruttò il lungo addestramento da diplomatico per schedare nel cervello l’aspetto di ognuno e l’impressione che ne riportava.

Alla sinistra del Console sedeva padre Lenar Hoyt, un prete dell’antica setta cristiana conosciuta come Chiesa Cattolica. Per un attimo il Console non ricordò il significato dell’abito nero e del collare bianco, ma poi rammentò l’Ospedale di San Francesco, su Hebron, dove era stato curato dall’alcolismo, in seguito ai risultati disastrosi del suo primo incarico diplomatico su quel pianeta, quasi quattro decenni standard prima. E alla menzione del nome di Hoyt ricordò un altro prete, scomparso su Hyperion a metà del suo periodo di permanenza sul pianeta in qualità di ambasciatore.

Lenar Hoyt era un giovanotto, dal punto di vista del Console. Aveva appena superato la trentina, ma sembrava che in tempi recenti qualcosa l’avesse invecchiato terribilmente: viso smagrito, zigomi sporgenti sotto la pelle giallastra, occhi grandi ma segnati da profonde occhiaie, labbra sottili perennemente piegate in una smorfia troppo accentuata per essere anche solo un sorriso cinico, incipiente calvizie dovuta alle radiazioni. Questi tratti davano l’impressione che l’uomo fosse stato ammalato per anni. Eppure, con stupore del Console, dietro quella maschera di dolore segreto restava l’eco fisica del ragazzo: deboli residui d’un viso rotondo, di pelle rosea, di labbra morbide, appartenuti a un Lenar Hoyt più giovane, più sano, meno cinico.

Accanto al prete sedeva un uomo la cui immagine, alcuni anni prima, era ben nota a gran parte dei cittadini dell’Egemonia. Il Console si chiese se la durata dell’attenzione collettiva, nella Rete dei Mondi, fosse ancora così breve come nel periodo in cui lui era vissuto lì. Più breve, probabilmente; quindi il colonnello Fedmahn Kassad — il cosiddetto Macellaio di Bressia Sud — ormai non era più né famigerato, né famoso. Ma per la generazione del Console, e per tutti coloro che vivevano nella lenta frangia di tempo degli esuli, Kassad non era uno che fosse facile dimenticare.

Il colonnello Fedmahn Kassad era alto — quasi al punto di guardare negli occhi Het Masteen — e indossava l’uniforme nera della FORCE, priva di gradi e di decorazioni. Le tenuta nera era bizzarramente simile a quella di padre Hoyt, ma i due uomini non si somigliavano per niente. Kassad non aveva l’aspetto distrutto di Hoyt: scuro di pelle, chiaramente in buona forma fisica, era snello e scattante come un frustino, con fasci di muscoli evidenti sulle spalle, sui polsi, sul collo. Gli occhi piccoli e scuri, simili alla lente di una telecamera primitiva, non perdevano un particolare. Il viso era tutto angoli, ombre, piani, sfaccettature; non magro come quello di padre Hoyt, ma semplicemente scolpito nella fredda pietra. La sottile barbetta lungo la mascella accentuava l’asprezza dei lineamenti come sangue sulla lama di un coltello.

I movimenti lenti e intensi del colonnello ricordarono al Console un giaguaro nato sulla Terra che aveva ammirato parecchi anni prima in uno zoo da riproduzione privato, su Lusus. La voce di Kassad era bassa e calma, ma il Console non mancò di notare che anche i silenzi del colonnello meritavano attenzione.

Gran parte del lungo tavolo era vuota: il gruppo era radunato a un’estremità. Di fronte a Fedmahn Kassad sedeva un uomo che fu presentato come il poeta Martin Sileno.

Sileno sembrava l’esatto contrario del militare che gli stava di fronte. Mentre Kassad era alto e snello, Martin Sileno era basso e chiaramente fuori forma. La sua faccia non aveva lineamenti scolpiti nella ròccia, ma i tratti mobili ed espressivi di un primate terrestre. La voce era stridula e forte. C’era qualcosa di piacevolmente demoniaco, pensò il Console, in quelle guance rubizze, nell’ampia bocca, nelle sopracciglia marcate, nelle orecchie a punta, nelle mani sempre in movimento, nelle lunghe dita da pianista. O da strangolatore. I capelli argentei del poeta erano tagliati a ciocche irregolari.