Non c’era intimità, quella notte. Il Console e gli altri esitarono, mentre portavano all’interno i bagagli dall’ingresso di Marsh Lane.
— Gesù lacrimoso — mormorò Martin Sileno.
Sembrava che orde di barbari avessero invaso il Cicero. Ogni sedia era occupata, ogni tavolo era pieno… di uomini, soprattutto. Il pavimento era coperto di zaini, armi, sacchi a pelo, trasmettitori antiquati, scatole di razioni e di tutte le cianfrusaglie tipiche di un esercito di profughi… o di un esercito in fuga. L’aria densa del Cicero, un tempo piena di un misto di odori (bistecche alla griglia, vino, stimolanti, birra, tabacco esente d’imposta), era adesso carica di un lezzo di corpi non lavati, urina, disperazione.
In quel momento, la sagoma enorme di Stan Leweski si materializzò dal buio. Le braccia del proprietario erano grosse e muscolose come sempre, ma i capelli neri e arruffati si erano ritirati di qualche centimetro sulla fronte e intorno agli occhi scuri le rughe erano molto più numerose di quanto il Console ricordasse. I suoi occhi si spalancarono, quando vide il Console. — Un fantasma! — esclamò.
— No.
— Non sei morto?
— No.
— Accidenti! — esclamò Stan Leweski. Afferrò per le braccia il Console e lo sollevò con la facilità con cui un uomo alzerebbe in aria un bambino di cinque anni. — Accidenti! No che non sei morto. Cosa ci fai, qui?
— Controllo la tua licenza di spaccio degli alcolici — disse il Console. — Rimettimi giù.
Leweski lo posò gentilmente a terra, gli diede una pacca sulle spalle e sogghignò. Guardò Martin Sileno e il sogghigno si trasformò in una smorfia. — Non hai una faccia nuova, ma non ti ho mai visto.
— Conoscevo il padre di tuo nonno — disse Sileno. — Ora che mi ricordo, ti è rimasta un po’ di quella birra chiara, pre-Egira? Quella roba inglese, tiepida, che sa di piscio d’alce riciclato? Non ne ho mai avuta abbastanza.
— Non è rimasto niente — rispose Leweski. Indicò il poeta. — Maledizione! Il baule di nonno Jiri! La vecchia olografia del satiro nella vecchia Jacktown. È possibile? — Fissò prima Sileno, poi il Console e li toccò cautamente con l’indice massiccio. — Due fantasmi!
— Sei persone morte di stanchezza — disse il Console. La piccina riprese a piangere. — Sette. Hai posto per noi?
Leweski tracciò un semicerchio con le mani allargate, i palmi in su. — È tutto così. Niente spazio. Niente cibo. Niente vino. — Guardò a occhi socchiusi Martin Sileno. — Niente birra. Siamo diventati un grande albergo senza letti. I bastardi della FAD stanno qui senza pagare, bevono il loro torcibudella fatto nell’entroterra e aspettano la fine del mondo. Che verrà presto, penso.
Il gruppetto era fermo in quello che un tempo era stato il mezzanino d’ingresso. I loro bagagli accatastati si univano al caos di equipaggiamenti che già ingombrava il pavimento. Gruppetti di uomini si aprivano a spallate la strada fra la folla e lanciavano occhiate di valutazione ai nuovi venuti… in particolare a Brawne Lamia. La donna restituì le occhiate con uno sguardo fisso, gelido.
Stan Leweski guardò un attimo il Console. — Ho un tavolo sulla terrazza. Cinque tipi delle Squadre della Morte FAD parcheggiano lì da una settimana e non fanno che ripetere a tutti e a se stessi come spazzeranno via a mani nude le legioni degli Ouster. Se volete il tavolo, sbatto fuori quei poppanti.
— Va bene — disse il Console.
Leweski si era già girato per uscire, quando Brawne Lamia lo bloccò rimettendogli una mano sul braccio. — Ti andrebbe un po’ d’aiuto? — gli chiese.
Stan Leweski scrollò le spalle e sogghignò. — Non ne ho bisogno, ma potrebbe piacermi. Vieni.
Sparirono fra la folla.
La terrazza del secondo piano aveva spazio appena sufficiente per il tavolo scheggiato e sei sedie. Nonostante la ressa pazzesca dei piani principali, sulle scale e sui pianerottoli, nessuno ebbe a ridire per il fatto che loro si appropriassero di quello spazio, dopo che Leweski e Lamia, nonostante le proteste, avevano buttato dalla ringhiera, giù nel fiume nove metri più in basso, i membri delle Squadre della Morte. In qualche modo Leweski era riuscito a mandare su un boccale di birra, un cesto di pane e delle fette d’arrosto freddo.
Il gruppo mangiò in silenzio: evidentemente risentiva più del normale della fame, della fatica e della depressione che seguono un periodo di crio-fuga. Il buio della terrazza era mitigato solo dalla fioca luce riflessa dall’interno del Cicero e dalle lanterne delle chiatte di passaggio sul fiume. Molti edifici lungo l’Hoolie erano bui, ma le nuvole basse riflettevano altre luci della città. Il Console riuscì a distinguere le macerie del Tempio Shrike, mezzo chilometro a monte del fiume.
— Bene — disse padre Hoyt. Ormai si era ripreso dalla pesante dose di ultramorfina, ma era in bilico fra dolore e sedativo. — E ora cosa facciamo?
Nessuno rispose. Il Console chiuse gli occhi. Non voleva assumersi l’onere di fare da guida, in niente. Seduti sulla terrazza di Cicero, era fin troppo facile ricadere nei ritmi d’una vita precedente: avrebbe bevuto fino alle prime ore del mattino, guardato la pioggia di meteore mentre le nuvole si schiarivano prima dell’alba, per poi trascinarsi con passo malfermo nel suo appartamento vuoto vicino al mercato, andare quattro ore dopo al Consolato, lavato, sbarbato e con aspetto umano, a parte gli occhi iniettati di sangue e una tremenda emicrania. Confidando che Theo — il taciturno, efficiente Theo — lo aiutasse a passare la mattinata. Confidando che la fortuna lo aiutasse a passare la giornata. Confidando che le bevute da Cicero lo aiutassero a passare la notte. Confidando che l’incarico privo d’importanza lo aiutasse a passare la vita.
— Siete pronti a iniziare il pellegrinaggio?
Il Console aprì di scatto gli occhi. Nel vano della porta c’era una figura incappucciata. Per un istante pensò che fosse Het Masteen, ma poi notò che quell’uomo era molto più basso e non parlava con la cadenza artefatta dei Templari.
— Se siete pronti, dobbiamo andare — disse la figura scura.
— Chi sei? — domandò Brawne Lamia.
— Sbrigatevi — fu la risposta dell’ombra.
Fedmahn Kassad si alzò, tenendosi piegato per non urtare con la testa il soffitto; afferrò la figura dalla veste lunga e con un rapido movimento della sinistra gli scostò il cappuccio.
— Un androide! — esclamò Lenar Hoyt, fissando la pelle azzurrastra e gli occhi azzurri.
Il Console fu meno sorpreso. Da più d’un secolo nell’Egemonia era illegale possedere androidi e da allora non ne erano stati bioprodotti di nuovi, ma in zone remote di mondi arretrati dove esisteva una sola colonia… come Hyperion, si continuava a usarli. Il Tempio Shrike ne aveva fatto largo uso, in accordo con la dottrina della Chiesa Shrike secondo la quale gli androidi erano privi del peccato originale e perciò superiori agli esseri umani e — incidentalmente — esenti dal terribile e inevitabile castigo dello Shrike.
— Dovete sbrigarvi — disse sottovoce l’androide, rimettendosi a posto il cappuccio.
— Sei del Tempio? — domandò Lamia.
— Silenzio! — intimò brusco l’androide. Lanciò un’occhiata nel corridoio, si girò e annuì. — Dobbiamo affrettarci. Seguitemi, prego.
Si alzarono tutti, poi esitarono. Il Console notò che Kassad si sbottonava con noncuranza il lungo giubbotto di pelle e scorse per un attimo la neuroverga infilata nella cintola. In altri momenti il Console sarebbe rimasto atterrito al solo pensiero che nei pressi ci fosse una neuroverga (bastava sfiorarla per errore, perché ogni sinapsi della terrazza fosse ridotta in poltiglia), ma in quell’occasione si sentì stranamente rassicurato.