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— I nostri bagagli… — cominciò Weintraub.

— È già stato provveduto — sussurrò l’incappucciato. — Svelti, ora.

Il gruppetto seguì l’androide, giù per le scale e nella notte, con movimenti stanchi e passivi come un sospiro.

Il Console dormì fino a tardi. Mezz’ora dopo il sorgere del sole, un rettangolo di luce trovò un varco fra gli scuri dell’oblò e cadde sul cuscino. Il Console cambiò posizione ma non si svegliò. Un’ora dopo, un rumoroso acciottolio indicò che si provvedeva a staccare e a sostituire con animali freschi le mante stanche che avevano trainato la chiatta per tutta la notte. Il Console continuò a dormire. Nell’ora seguente, i passi e le grida dell’equipaggio, sul ponte all’esterno della cabina di lusso, diventarono più forti e persistenti e, alla fine, il Console fu svegliato dal clacson d’avvertimento sotto le chiuse di Karla.

Muovendosi lentamente nel languore simile agli effetti della droga dovuto ai postumi della crio-fuga, il Console si lavò alla meglio, disponendo solo di bacinella e pompa; indossò ampi calzoni di cotone, una vecchia camicia di tela, scarpe da passeggio con suola di flussoschiuma, e trovò la via per il ponte intermedio.

La colazione era stata preparata sopra una lunga credenza accanto al vecchio tavolo retraibile nell’assito del ponte. Una tenda riparava la zona pranzo; la stoffa color cremisi e oro sbatteva nella brezza. Era una bella giornata, serena a luminosa: il sole di Hyperion recuperava in ferocia quello che gli mancava in grandezza.

Weintraub, Lamia, Kassad e Sileno erano già in piedi. Lenar Hoyt e Het Masteen si unirono al gruppo poco dopo l’arrivo del Console.

Dal buffet il Console prese crostini di pesce, frutta e succo d’arancia e si accostò alla murata. In quel punto il fiume era molto largo, almeno un chilometro da riva a riva, e la lucentezza verde e azzurra dell’acqua rispecchiava quella del cielo. Alla prima occhiata non riconobbe la zona ai lati del fiume. A est, colture di riso a chicco periscopico si estendevano nella nebbiolina dove il sole sorgente si rifletteva su mille superfici allagate. Alle intersezioni degli argini si vedeva qualche capanna d’indigeni, con le pareti ad angolo in legno di weir scolorito o in mezzaquercia dorata. A ovest, il terreno lungo il fiume era coperto di bassi cespugli di gissen, radici di piegrovia e di un tipo sgargiante di felce rossa che il Console non riconobbe. Tutte quelle piante circondavano marcite fangose e lagune in miniatura che si estendevano per circa un chilometro, fino alle scogliere alte e ripide, dove stenti arbusti di semprazzurri si abbarbicavano a ogni interstizio fra le lastre di granito.

Per un istante il Console si sentì disorientato, smarrito in un mondo che pensava di conoscere bene; ma poi ricordò il clacson alle Chiuse di Karla e capì che si erano inoltrati in un tratto assai poco utilizzato dell’Hoolie, a nord della Ceppaia di Doukhobor. Non aveva mai visto questa parte del fiume perché aveva sempre navigato, o sorvolato, il Regio Canale di Trasporto, che si trovava a ovest delle scogliere. Sospettava che situazioni di pericolo, o disordini lungo la via principale per il mar d’Erba, li avessero costretti a seguire tratti dell’Hoolie che di solito venivano aggirati. Calcolò di trovarsi a circa centottanta chilometri a nordest di Keats.

— Di giorno sembra diversa, vero? — disse padre Hoyt.

Il Console guardò di nuovo la riva: non sapeva bene a cosa si riferiva Hoyt, poi capì che il prete parlava della chiatta.

Era stata un’esperienza singolare, seguire sotto la pioggia l’androide messaggero, salire a bordo della vecchia chiatta, farsi strada attraverso un labirinto di stanze decorate con mosaici a scacchiera e di corridoi, fermarsi alle rovine del Tempio per far salire Het Masteen e guardare poi le luci di Keats allontanarsi a poppa.

Il Console ricordò queste ore prima e dopo la mezzanotte come se si trattasse d’un sogno reso confuso dalla stanchezza, e pensò che anche gli altri dovevano essere esausti e disorientati quanto lui. Ricordava vagamente la sua sorpresa nel vedere che l’equipaggio della chiatta era composto di soli androidi, ma soprattutto il sollievo di poter chiudere finalmente la porta della cabina e trascinarsi a letto.

— Stamattina parlavo con A. Bettik — disse Weintraub, riferendosi all’androide che aveva fatto loro da guida. — Questo vecchio barcone ha una lunga storia.

Martin Sileno andò alla credenza, si versò dell’altro succo di pomodoro e aggiunse un goccio di liquido dalla fiaschetta che aveva con sé. — Chiaramente ha girato parecchio — disse. — Le murate sono lucide per l’uso, gli scalini sono consumati, i soffitti sono neri per la fuliggine delle lampade, i letti hanno un incavo dovuto a generazioni di scopate. Direi che la chiatta ha qualche secolo. Gli intagli e le finiture rococò sono una meraviglia. Avete notato che, sotto ogni altro odore, gli intagli profumano ancora di legno di sandalo? Non sarei sorpreso se quest’affare venisse dalla Vecchia Terra.

— Infatti — disse Sol Weintraub. La bambina, Rachel, gli dormiva in braccio e nel sonno formava bollicine di saliva. — Siamo a bordo dell’orgogliosa Benares, che porta il nome della città della Vecchia Terra dove è stata costruita.

— Non ricordo d’avere sentito che una città della Vecchia Terra si chiamasse così — disse il Console.

Brawne Lamia alzò lo sguardo dai resti della colazione. — Benares, nota anche come Varanasi o Gandhipur, Stato Libero d’India. Membro della Seconda Sfera Asiatica di Co-prosperità dopo la terza guerra cino-nipponica. Distrutta nello Scambio Limitato con la Repubblica Musulmana indo-sovietica.

— Sì — disse Weintraub. — La Benares è stata costruita un bel po’ prima del Grande Errore. A metà del ventiduesimo secolo, direi. A. Bettik m’ha detto che in origine era una chiatta a levitazione…

— Qui sotto ci sono ancora i generatori elettromagnetici? — lo interruppe il colonnello Kassad.

— Credo di sì — rispose Weintraub. — Accanto al salone principale del ponte inferiore. Il pavimento del salone è di cristallo lunare trasparente. Bello, se navigassimo a duemila metri d’altezza… ma del tutto inutile, ora.

— Benares — rifletté Martin Sileno. Passò amorevolmente la mano sulla murata scurita dal tempo. — Una volta mi hanno derubato, lì.

Brawne Lamia posò la tazza di caffè. — Vecchio, vorresti farci credere d’essere tanto anziano da ricordare la Vecchia Terra? Non siamo degli stupidi, sai.

— Mia cara bambina — s’illuminò Martin Sileno — non voglio farvi credere nulla. Pensavo solo che sarebbe divertente… oltre che edificante e illuminante… se a un certo punto ci scambiassimo un elenco di tutte le località in cui abbiamo rubato o siamo stati derubati. Dal momento che hai l’iniquo vantaggio d’essere stata figlia d’un senatore, sono sicuro che il tuo elenco sarebbe il più importante… e anche il più lungo.

Lamia aprì la bocca per ribattere, corrugò la fronte e restò zitta.

— Chissà come ha fatto, questa imbarcazione, a finire su Hyperion — mormorò padre Hoyt. — Perché portare una chiatta a levitazione in un pianeta dove le apparecchiature elettromagnetiche non funzionano?

— Ma potrebbero funzionare — disse il colonnello Kassad. — Anche Hyperion possiede un campo magnetico, per quanto debole. Solo, che non è abbastanza affidabile, per sostenere un mezzo di trasporto aereo.

Padre Hoyt inarcò un sopracciglio: era evidente che non capiva la distinzione.

— Ehi! — chiamò il poeta dalla murata. — La combriccola è tutta qui!

— E allora? — replicò Brawne Lamia. Le sue labbra sparivano in una linea sottile, ogni volta che si rivolgeva a Sileno.

— Allora ci siamo tutti. Continuiamo con le storie.

— Mi sembrava che si fosse deciso di raccontarle dopo cena — disse Het Masteen.