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Martin Sileno scrollò le spalle. — Colazione, cena, chi se ne fotte? Siamo tutti insieme. Ci vogliono sei o sette giorni per arrivare alle Tombe del Tempo, no?

Il Console rifletté. Meno di due giorni per completare il tratto via fiume. Altri due giorni — anche meno, se i venti erano favorevoli — sul mar d’Erba. Certo non più d’un giorno per attraversare le montagne. — No — disse. — Meno di sei giorni.

— Benissimo — replicò Sileno. — Allora riprendiamo a raccontare. E poi, non è detto che lo Shrike non venga a farci visita prima che bussiamo noi alla sua porta. Se queste storie da capezzale possono in qualche modo favorire le nostre possibilità di sopravvivenza, è meglio che ascoltiamo tutti prima che qualcuno venga fatto a pezzi e trasformato in dadi da quel ciboprocessore ambulante a cui siamo tanto ansiosi di fare visita.

— Sei disgustoso — disse Brawne Lamia.

— Ah, mia cara — sorrise Sileno — sono le stesse parole che hai mormorato ieri notte dopo il secondo orgasmo.

Lamia guardò dall’altra parte. Padre Hoyt si schiarì la gola. — A chi tocca? — disse. — Raccontare la storia, intendo. — Il silenzio si protrasse.

— A me — disse infine Fedmahn Kassad. Dalla tasca della veste bianca tirò fuori una strisciolina di carta e mostrò il grosso 2.

— Le spiace iniziare subito? — gli chiese Sol Weintraub.

Kassad mostrò un accenno di sorriso. — Non ero per niente favorevole all’idea — disse. — Ma se proprio si deve, meglio farlo in fretta.

— Ehi! — esclamò Sileno. — Costui conosce i drammaturghi pre-Egira.

— Shakespeare? — chiese padre Hoyt.

— No — rispose Sileno. — Lerner e quel merdoso di Lowe. Quel culo di Neil Simon. Quel fottuto di Hamel Posten.

— Colonnello — disse formalmente Sol Weintraub — la giornata è magnifica, nessuno di noi ha impegni urgenti per le prossime ore, quindi le saremmo grati se ci facesse conoscere la storia che l’ha portata su Hyperion per l’ultimo pellegrinaggio allo Shrike.

Kassad annuì. La giornata diventava più calda, mentre la tenda schioccava, i ponti scricchiolavano e la chiatta a levitazione Benares risaliva il fiume a velocità costante, verso le montagne, le brughiere e lo Shrike.

IL RACCONTO DEL SOLDATO

Gli amanti di guerra

Fu durante la battaglia di Agincourt che Fedmahn Kassad incontrò la donna alla ricerca della quale avrebbe dedicato il resto della vita.

Era un mattino umido e gelido di tardo ottobre, nell’Anno del Signore 1415. Kassad era stato arruolato come arciere nell’esercito di Enrico V d’Inghilterra. Dal 14 agosto l’esercito inglese era sul suolo di Francia e dall’8 ottobre si ritirava davanti alle superiori forze francesi. Enrico V aveva convinto il Consiglio di guerra che l’esercito, con una marcia forzata, avrebbe potuto sfuggire ai francesi e raggiungere la salvezza a Calais. Era stato un fiasco. Ora, mentre spuntava, freddo e piovigginoso, il 25 ottobre, settemila inglesi, per la maggior parte arcieri, affrontavano ventottomila armigeri francesi in un chilometro di campo fangoso.

Kassad era infreddolito, stanco, nauseato e atterrito. Nell’ultima settimana di marcia, lui e gli altri arcieri si erano nutriti quasi solo di bacche racimolate qua e là, e quella mattina quasi tutti gli uomini della colonna soffrivano di diarrea. La temperatura era scesa a soli dieci gradi e Kassad aveva trascorso la lunga notte cercando di dormire sul terreno bagnato. Era impressionato dall’incredibile realismo dell’esperienza (la Scuola Comando Olympus, Rete Tattica Storica, era superiore ai normali stimolosimulatori quanto un ologramma nei confronti di una fotografia), ma le sensazioni fisiche erano così convincenti, così reali, che non gli andava l’idea di riportare delle ferite. C’erano storie di cadetti che avevano ricevuto ferite mortali nel simulatore SCO-RTS ed erano stati estratti privi di vita dalle culle d’immersione.

Per gran parte della mattinata Kassad e gli altri arcieri sul fianco destro di Enrico V si erano limitati a guardare il numeroso esercito francese, ma quando gli stendardi ondeggiarono e l’equivalente del XV secolo dei sergenti iniziò a sbraitare, ubbidirono all’ordine del re e marciarono contro il nemico. La disordinata linea inglese, che si estendeva per circa settecento metri nel campo, da filare d’alberi a filare, consisteva in gruppi di arcieri come quello di Kassad alternati a manipoli di armigeri. Gli inglesi non avevano una vera e propria cavalleria: molti dei cavalli che Kassad vedeva nella sua parte di campo portavano uomini riuniti intorno al gruppo di comando del re, trecento metri verso il centro, o ammassati attorno alla posizione del Duca di York, più vicino al punto in cui Kassad e gli altri arcieri proteggevano il fianco destro. Quei gruppi comando ricordarono a Kassad il quartier generale mobile della FORCE:terra; solo che qui, a rivelare la posizione, anziché l’inevitabile foresta d’antenne per le trasmissioni c’erano bandiere e stendardi colorati che pendevano inerti dalle picche. Un ovvio bersaglio per l’artiglieria, pensò Kassad; poi ricordò che questa particolare sfumatura dell’arte militare ancora non esisteva.

I francesi, notò, avevano cavalli in quantità. Sei o settecento soldati a cavallo si disposero in ranghi serrati ai lati dello schieramento, mentre una lunga linea di cavalleria si piazzava alle spalle del fronte di battaglia. Kassad non amava i cavalli. Aveva visto ologrammi e fotografie di questi animali, ovviamente, ma non li aveva mai incontrati di persona, prima di quell’esercitazione; e la loro mole, la puzza, i nitriti, tendevano a snervarlo… soprattutto quando i maledetti quadrupedi erano corazzati al petto e alla testa, ferrati in acciaio, addestrati a portare in groppa uomini in armatura che impugnavano lance di quattro metri.

L’avanzata inglese s’arrestò. Kassad stimò che il fronte di battaglia si trovasse a circa duecentocinquanta metri dai francesi. Sapeva, per l’esperienza della settimana precedente, che il nemico era a portata d’arco; ma sapeva anche di dover tirare indietro il braccio fin quasi a slogarlo perché il tiro risultasse efficace.

I francesi gridavano parole che Kassad ritenne insulti. Non vi badò, mentre con i suoi compagni avanzava in silenzio fino al punto dove avevano piantato nel terreno soffice le lunghe frecce e conficcato i pali che si portavano dietro da una settimana, pesanti, lunghi quasi un metro e mezzo, appuntiti alle estremità. Quando, nel cuore dei boschi appena al di là della Somme, agli arcieri era arrivato l’ordine di trovare degli alberelli e ricavarne pali, Kassad si era domandato a che cosa servissero. Adesso lo sapeva.

Un arciere ogni tre portava un pesante mazzuolo. Ora facevano a turno per piantare i pali nel terreno, con la giusta angolazione. Kassad estrasse il lungo coltello, appunti di nuovo l’estremità di un palo che, anche inclinato, gli arrivava quasi al petto, e si allontanò dagli acuminati cavalli di Frisia per attendere la carica dei francesi.

I francesi non caricarono.

Kassad attese insieme agli altri. Aveva agganciato all’arco la corda, aveva piantato davanti a sé due gruppi di quarantotto frecce e teneva i piedi nella corretta posizione.

I francesi non caricarono.

La pioggia era cessata, ma ora soffiava una brezza gelida che portava via rapidamente quel po’ di calore generato dalla breve marcia e dallo sforzo fisico per conficcare i pali. Si sentiva solo uno scalpiccio metallico di uomini e cavalli, qualche brontolio o risatina nervosa, e il tonfo più sordo degli zoccoli della cavalleria francese che riformava le righe dello schieramento ma non veniva alla carica.

«Merda» disse un sottufficiale brizzolato, a qualche passo da Kassad. «Quei bastardi ci hanno fatto sprecare tutta la porca mattinata. O pisciano, o lasciano libero il cesso.»