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«Ah, merda» mormorò il sottotenente Kassad.

L’armigero uscì dal sottobosco come un orso che carica: braccia alzate, gambe aperte, spada che scendeva in un arco inteso a sbudellare Kassad. Il cadetto della SCO cercò di balzare indietro e di alzare contemporaneamente il mazzuolo. Non ebbe un gran successo in nessuna delle due mosse. La spada del francese gli fece volar via il mazzuolo e lacerò cuoio, camicia e pelle.

Kassad gridò e barcollò all’indietro, estraendo il coltello. Con il tacco destro inciampò nel ramo d’un albero caduto e finì a gambe levate, imprecando, impigliandosi nell’intrico dei rami, mentre l’armigero avanzava rumorosamente e con la pesante spada tranciava i rami come se avesse in mano un machete fuori misura. Kassad aveva già estratto il pugnale, quando l’armigero si aprì la strada fra i rami morti; ma quella lama di venticinque centimetri era ben poca cosa contro un’armatura, a meno che il cavaliere non fosse inerme. E quel cavaliere non lo era. Kassad capì che non sarebbe mai riuscito a eludere la guardia di quella spada. Poteva solo sperare nella fuga, ma il grosso tronco dell’albero alle sue spalle e la sterpaglia più in là eliminavano questa possibilità. Kassad non voleva farsi colpire da dietro, mentre si girava. Né dal basso mentre s’arrampicava. Non voleva farsi colpire da nessuna angolazione.

Assunse la posizione acquattata per il combattimento con il coltello — cosa che non faceva dai giorni in cui si azzuffava nei vicoli dei bassifondi di Tharsis — e si chiese come la simulazione avrebbe trattato la sua morte.

La figura comparve dietro l’armigero come un’ombra improvvisa. Il rumore del mazzuolo di Kassad che colpiva la spalla corazzata del cavaliere sembrò proprio quello prodotto da qualcuno che martellasse con un maglio il cofano di un VEM.

Il francese barcollò, si girò per affrontare la nuova minaccia e si prese in pieno petto un secondo colpo. Il salvatore di Kassad era piccolino. L’armigero non cadde. Stava alzando sopra la testa la spada, quando Kassad lo colpì da dietro, con una spallata sotto le ginocchia.

In un rumore di rami schiantati, il francese cadde per terra. Il piccolo assalitore gli salì a cavalcioni, bloccò con un piede il braccio destro dell’uomo in armatura e gli calò ripetutamente la mazza sull’elmo e sulla visiera. Kassad si districò da gambe e rami, si sedette sulle ginocchia dell’uomo steso a terra e cominciò a menare fendenti contro i punti non protetti dall’armatura: inguine, fianchi, ascelle. Il salvatore di Kassad balzò di lato per piantare i piedi sul polso del cavaliere. Kassad strisciò avanti, vibrò alcune pugnalate nella giunzione fra elmo e pettorale e alla fine conficcò la lama nella fessura della visiera.

Il cavaliere urlò, quando il mazzuolo si abbatté per l’ultima volta, rischiando di colpire anche la mano di Kassad, per piantare la lama come se fosse stato un paletto da tenda. L’armigero s’inarcò: nel violento spasmo finale sollevò da terra Kassad e trenta chili d’armatura, poi ricadde inerte.

Kassad rotolò su un fianco. Il suo salvatore si lasciò cadere accanto a lui. Tutt’e due erano madidi di sudore e schizzati del sangue del morto. Kassad guardò lo sconosciuto: una donna alta, che indossava indumenti non dissimili dai suoi. Per qualche istante rimasero distesi ad ansimare.

«Stai… bene?» riuscì infine a dire Kassad. All’improvviso fu colpito dall’aspetto della donna. Capelli castani, troppo corti rispetto alla moda corrente dei Mondi della Rete, lisci e tagliati in modo che le ciocche più lunghe, ai lati della scriminatura spostate di qualche centimetro a sinistra rispetto al centro della fronte, ricadessero appena sopra l’orecchio destro: un taglio da ragazzo di qualche epoca dimenticata. Ma lei non era un ragazzo. Probabilmente, pensò Kassad, era la donna più bella che avesse mai visto: struttura ossea così perfetta che mento e zigomi risaltavano pur senza essere troppo appuntiti; occhi grandi che brillavano di vita e d’intelligenza; bocca dolce, con un morbido labbro inferiore. Disteso al suo fianco, Kassad capì che la donna era alta… non quanto lui, ma chiaramente più di una donna del XV secolo. L’ampia veste e i calzoni a sbuffo non nascondevano la morbida curva dei fianchi e del seno. Sembrava di qualche anno più anziana di lui, forse tra i venticinque e i trenta, ma Kassad se ne accorse appena, perché la donna continuava a fissarlo con quegli occhi dolci, seducenti, infinitamente profondi.

«Stai bene?» ripeté Kassad, con un tono che perfino a lui sembrò strano.

La donna non rispose. O meglio, rispose passando sul petto di Kassad le lunghe dita e sciogliendo le cordicelle che tenevano legata la sua rozza veste. Le mani trovarono la camicia. Era inzuppata di sangue e mezzo strappata sul davanti. La donna la strappò del tutto. Ora si muoveva accanto a lui, dita e labbra sul suo petto, fianchi già in movimento. Con la destra trovò il legaccio sul davanti dei calzoni e lo strappò.

Kassad si lasciò spogliare del tutto, aiutandola; poi, con tre facili mosse, le tolse i vestiti. La donna non portava niente, sotto la camicia e i calzoni di stoffa grezza. Kassad fece scivolare la mano fra le sue cosce, dietro di lei; le strinse le natiche, l’attirò a sé, andò fra i peli ispidi e umidi. Lei gli si aprì, chiuse le labbra sulle sue. In qualche modo, nonostante i movimenti per svestirsi, il loro corpo restò sempre a contatto. Kassad sentì la propria erezione strusciare contro la cuspide del suo ventre.

Allora lei rotolò su di lui e gli strinse i fianchi fra le cosce senza smettere di fissarlo. Kassad non era mai stato così eccitato. Ansimò e chiuse gli occhi, quando lei si portò alle spalle la mano, lo trovò e lo guidò dentro di sé. Riaprì gli occhi: lei si muoveva lentamente, la testa all’indietro, gli occhi chiusi. Kassad mosse le mani a stringerle i seni perfetti. I capezzoli s’indurirono.

Fecero l’amore. Kassad, a ventitré anni standard, era stato innamorato una sola volta e aveva goduto del sesso molte volte. Credeva di sapere il perché e il percome. Non c’era niente, nella sua esperienza fino a quel momento, che non avrebbe saputo descrivere con una frase e una risata ai suoi compagni di squadra nella stiva d’un trasporto truppe. Con la freddezza e il cinismo d’un veterano ventitreenne, era certo che non avrebbe mai sperimentato niente che non potesse essere descritto in quel modo, liquidato in quel modo. Si sbagliava. Non avrebbe più potuto condividere adeguatamente con altri il senso dei minuti che seguirono. Non ci avrebbe nemmeno mai provato.

Fecero l’amore in un improvviso raggio di luce di tardo ottobre, sopra un tappeto di foglie e indumenti, mentre un velo di sangue e di sudore lubrificava il dolce attrito fra i loro corpi. Gli occhi verdi di lei fissavano Kassad: si dilatarono leggermente quando lui cominciò a muoversi più in fretta; si chiusero nello stesso istante in cui lui chiuse i suoi.

Poi si mossero insieme nell’improvvisa marea di sensazioni antica e inevitabile come il moto dei mondi: pulsazioni rapide, un ulteriore, comune sollevamento finale, il mondo che si ritraeva nel nulla… e poi, ancora uniti dal contatto, dal battito del cuore e dal brivido della passione che s’affievoliva, lasciare che la consapevolezza tornasse a poco a poco a separare la carne, mentre il mondo rifluiva attraverso sensi dimenticati.