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Rimasero distesi l’uno accanto all’altra. L’armatura del morto era fredda, contro il braccio sinistro di Kassad; il fianco di lei tiepido contro la sua gamba destra. La luce del sole era una benedizione. Colori nascosti risalirono alla superficie delle cose. Kassad girò la testa a guardarla, mentre lei gli posava sulla spalla la fronte. Le guance le brillavano di rossore e di luce d’autunno, i capelli erano fili di rame sul braccio di Kassad. La sconosciuta piegò la gamba sulla coscia di Kassad e lui sentì il rinnovarsi della passione. Il sole era caldo, sul suo viso. Kassad chiuse gli occhi.

Quando si risvegliò, lei era scomparsa. Era sicuro che fossero trascorsi solo alcuni secondi… non più d’un minuto, certamente; ma la luce del sole era svanita, i colori avevano abbandonato la foresta, una fresca brezza serale muoveva i rami spogli.

Kassad si rivestì con gli indumenti laceri, induriti dal sangue. L’armigero francese giaceva immobile e rigido nell’atteggiamento disinvolto della morte. Sembrava già inanimato, parte della foresta. Non c’era il minimo segnò della donna.

Zoppicando, Fedmahn Kassad attraversò di nuovo il bosco, nel buio della sera e nell’improvvisa pioggerella gelida.

Sul campo di battaglia c’era ancora gente, viva e morta. I morti giacevano ammucchiati come i soldatini di ferro con cui Kassad giocava da bambino. I feriti si muovevano lentamente, con l’aiuto di amici. Qua e là, sagome furtive si aggiravano fra i morti; vicino alla fila opposta di alberi, un brioso gruppo di araldi, francesi e inglesi, teneva consiglio con grandi gesti e conversazioni animate. Kassad sapeva che dovevano dare un nome alla battaglia, in modo che le rispettive registrazioni concordassero. Sapeva anche che si sarebbero accordati sul nome del castello più vicino, Agincourt, anche se non aveva avuto parte nella strategia e nella battaglia vera e propria.

Kassad stava cominciando a credere che non si trattasse di simulazione, che la sua vita nella Rete dei Mondi fosse il sogno, e la vera realtà quel giorno grigio, quando all’improvviso l’intera scena si congelò in una serie di profili di figure umane e di cavalli, e la foresta sempre più buia diventò trasparente come un ologramma in dissolvenza. Subito dopo fu aiutato a uscire dalla culla di simulazione della Scuola Comando Olympus; gli altri cadetti e gli istruttori si alzavano, discutevano, ridevano fra loro… tutti inconsapevoli, sembrava, del fatto che il mondo era cambiato per sempre.

Per settimane Kassad trascorse ogni ora libera a vagare nella zona della Scuola Comando, a guardare dai bastioni le ombre serali di Mons Olympus che coprivano prima la foresta sull’altopiano, poi le terre alte ricche d’insediamenti, poi tutto il mondo. E, in ogni istante, pensava a quello che era successo. Pensava a lei.

Nessun altro aveva notato qualcosa d’insolito nella simulazione. Nessun altro aveva lasciato il campo di battaglia. Un istruttore spiegò che in quel particolare segmento della simulazione non esisteva nulla, se non il campo di battaglia. Nessuno aveva notato la mancanza di Kassad. Come se l’incidente nella foresta, donna compresa, non fosse mai accaduto.

Kassad la sapeva più lunga. Seguì i corsi di storia militare e di matematica. Trascorse nel poligono di tiro e nella palestra le ore libere. Provò le baracche di punizione nel Quadrilatero Caldera, anche se non di frequente. Tutto sommato, il giovane Kassad divenne un allievo ufficiale migliore di quanto già non fosse. E nel frattempo attese.

E lei torno.

Accadde di nuovo nelle ore conclusive di una simulazione SCO-RTS. A quel tempo Kassad aveva imparato che le esercitazioni erano qualcosa di più che semplici simulazioni. La SCO-RTS faceva parte della Totalità della Rete dei Mondi, il sistema in tempo reale che governava la politica dell’Egemonia, forniva informazioni a decine di miliardi di cittadini affamati di dati, e aveva sviluppato una forma di autonomia e consapevolezza proprie. Più di centocinquanta sfere dati planetarie mescolavano le proprie risorse all’interno dell’intelaiatura creata da seimila Intelligenze Artificiali classe omega, per consentire il funzionamento della SCO-RTS.

«La roba della RTS non simula» si lamentò il cadetto Radinski, il miglior esperto di IA che Kassad fosse riuscito a trovare e a corrompere per avere spiegazioni. «Sogna! Sogna con la migliore accuratezza storica della Rete… molto superiore alla somma delle parti, poiché si collega a intuizioni olistiche, oltre che a fatti. E quando sogna, fa sognare anche noi.»

Kassad non aveva capito, ma ci aveva creduto. E poi lei tornò.

Nella prima guerra Usa-Vietnam, fecero l’amore nei minuti successivi a un’imboscata, nel buio e nel terrore di una pattuglia notturna. Kassad indossava una ruvida tuta mimetica (senza biancheria intima, per via di certe irritazioni all’inguine dovute alla giungla) e un elmetto d’acciaio non molto più progredito di quelli in uso ad Agincourt. Lei portava pigiama nero e sandali, la divisa universale del contadino del sudest asiatico. E dei vietcong. Poi, nudi, fecero l’amore in piedi nella notte, la schiena di lei contro un albero, le gambe avvinghiate intorno a lui, mentre il mondo esplodeva col bagliore verde dei razzi perimetrali e lo schiocco, simile a colpo di tosse, delle mine Claymore.

Lei venne a lui nel secondo giorno della battaglia di Gettysburg e ancora in quella di Borodino, dove le nuovole di fumo provocate dalla polvere da sparo restavano sospese sopra le cataste di cadaveri come vapore congelato di anime dipartite.

Fecero l’amore nella carcassa di un veicolo corazzato per il trasporto delle truppe, nel Bacino Hellas, mentre la battaglia di hovertank infuriava ancora e la polvere rossa del simun in arrivo graffiava rumorosamente lo scafo di titanio. «Dimmi come ti chiami» le aveva mormorato in standard. Lei aveva scosso la testa. «Sei reale… fuori della simulazione?» le aveva domandato, nell’anglo-giapponese di quell’era. Lei aveva annuito e si era piegata per baciarlo.

Giacquero insieme in un posto riparato fra le macerie di Brasilia, mentre i raggi della morte dei VEM cinesi giocavano come riflettori azzurrastri sulle pareti sgretolate di ceramica. Durante una battaglia senza nome, dopo l’assedio di una dimenticata cittadella nelle steppe russe, lui la tirò dentro la stanza diroccata in cui avevano fatto l’amore e le sussurrò: «Voglio restare con te». Lei gli sfiorò col dito le labbra e scosse la testa. Dopo l’evacuazione di New Chicago, mentre erano distesi sulla terrazza del centesimo piano dove Kassad aveva sistemato il suo nido di cecchino per la disperata azione di retroguardia dell’ultimo presidente degli Stati Uniti, le posò la mano sulla carne tiepida fra i seni e le disse: «Non potrai mai unirti a me… fuori di qui?» Con il palmo lei gli toccò la guancia e sorrise.

Durante l’ultimo anno alla Scuola Comando, ci furono solo cinque simulazioni SCO-RTS e l’addestramento dei cadetti passò alle esercitazioni campali dal vivo. A volte, come quando era legato alla poltrona di comando tattico, nel corso di un lancio a livello di battaglione su Cerere, Kassad chiudeva gli occhi, guardava fra le configurazioni a colori primari della matrice tattica/terreno generata corticalmente e percepiva la presenza di… di qualcuno? Di lei? Non ne era sicuro.

E poi lei non venne più. Non venne durante i mesi conclusivi di lavoro. Non venne durante la simulazione finale della grande battaglia del Sacco di Carbone, dove fu sedato l’ammutinamento del generale Horace Glennon-Height. Non venne durante le parate e i festeggiamenti per la nomina a ufficiale, né quando la classe sfilò nella rassegna conclusiva di fronte al PFE dell’Egemonia, che salutava dal ponte levitazionale illuminato di rosso.

E non ci fu tempo nemmeno per sognare, quando i giovani ufficiali si teleportarono sulla Luna per la cerimonia Masada, tornarono su Tau Ceti Centro per il giuramento formale d’ingresso nella FORCE, e poi conclusero l’addestramento.