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Kassad alzò il braccio e si coprì gli occhi. Anche se era ancora disorientato per il periodo in crio-fuga, ora ricordava le dolorose sedute terapeutiche, le lunghe ore nei bagni virali RNA, le operazioni chirurgiche. Soprattutto le operazioni. «Quale rotta seguiamo?» chiese, continuando a schermarsi gli occhi. «Non ricordo come torniamo alla Rete.»

La dottoressa sorrise, come se lui le avesse rivolto quella stessa domanda ogni volta che riemergeva dalla crio-fuga. E forse era davvero così. «Faremo scalo su Hyperion e su Garden» rispose la donna. «In questo momento entriamo nell’orbita di…»

Fu interrotta dal frastuono della fine del mondo: squilli di grandi trombe d’ottone, clangori di metallo, grida delle furie. Kassad rotolò giù dal letto e si avvolse nel materasso, mentre cadeva in gravità 1,6 g. Turbini d’uragano lo scagliarono attraverso il ponte e lo colpirono con brocche, vassoi, lenzuola, libri, corpi umani, strumenti metallici e un numero incalcolabile d’oggetti disparati. Uomini e donne urlavano, con voci che diventavano stridule mentre l’aria fuggiva dal reparto. Kassad sentì che il materasso sbatteva contro la parete e guardò fra le dita strette a pugno.

A un metro da lui, un ragno grosso quanto un pallone da calcio muoveva pazzamente le zampe e cercava d’infilarsi a forza nello squarcio comparso all’improvviso nella paratia. Le zampe filiformi sembravano dare colpi di scacciamosche ai fogli e ai detriti che roteavano intorno. Il ragno girò su se stesso e Kassad si rese conto che si trattava di una testa umana: quella della dottoressa, decapitata nell’esplosione iniziale. I lunghi capelli si protesero verso il viso di Kassad. Poi lo sguarcio si allargò fino alla grossezza d’un pugno, la testa lo attraversò e scomparve.

Kassad si tirò in piedi proprio quando il braccio della nave smise di ruotare e l’alto cessò d’esistere. Adesso erano in gioco solo i venti d’uragano che scagliavano verso le fessure e gli squarci della paratia ogni oggetto del reparto, e gli sbandamenti della nave che davano la nausea. Kassad nuotò contro corrente e si tirò verso la porta del corridoio del braccio, sfruttando ogni appiglio che gli riusciva di trovare e dandosi una spinta a colpi di tallone per superare gli ultimi cinque metri. Un vassoio di metallo lo colpì sopra l’occhio; un cadavere con gli occhi iniettati di sangue rischiò di farlo rotolare di nuovo nel reparto medico. I battenti della porta stagna d’emergenza sbattevano inutilmente contro il corpo privo di vita d’un marine in tuta spaziale che ne impediva la chiusura. Kassad rotolò nel pozzo del braccio e si tirò dietro il cadavere del marine. La porta si chiuse, ma anche il pozzo era privo d’aria come il padiglione medico. Da qualche parte, il gemito di una sirena diventò tanto acuto da passare negli ultrasuoni.

Anche Kassad emise un gemito intenso, nel tentativo di alleviare la pressione in modo che timpani e polmoni non scoppiassero. Il braccio della nave perdeva ancora aria: Kassad e il cadavere del marine furono risucchiati per i centotrenta metri che portavano nel corpo principale del veicolo spaziale: a furia di piroette, in un macabro balletto, risalirono il pozzo.

Kassad impiegò venti secondi per aprire i ganci d’emergenza della tuta del marine e un altro minuto per tirar fuori il cadavere e prenderne il posto. Era di almeno dieci centimetri più alto del morto e, anche se la tuta era progettata in modo da avere una certa elasticità, lo stringeva dolorosamente al collo, ai polsi e alle ginocchia. Il casco gli serrava la fronte come una morsa imbottita. Goccioline di sangue e di un materiale biancastro e umido macchiavano l’interno del visore. La scheggia di shrapnel che aveva ucciso il marine aveva lasciato il foro d’entrata e d’uscita, ma la tuta aveva provveduto per quanto possibile ad autosigillarsi. Gran parte delle spie luminose pettorali erano rosse; la tuta non rispose, quando Kassad chiese un rapporto situazionale, ma il respiratore funzionava, anche se con uno stridio preoccupante.

Kassad provò la radio incorporata. Non ricevette niente, nemmeno disturbi di statica. Trovò il collegamento del comlog, lo infilò in una presa dello scafo. Niente. A quel punto la nave sbandò ancora, mentre il metallo echeggiava di colpi in successione, e lui finì contro la parete del pozzo. Una gabbia di vettura gli rotolò vicino: i cavi spezzati frustavano il vuoto come i tentacoli di un anemone marino infuriato. Nella gabbia c’erano alcuni cadaveri; altri erano impigliati lungo i segmenti della scala a chiocciola ancora intatta della parete del pozzo. A colpi di tallone Kassad percorse la distanza che lo separava dal fondo del pozzo: scoprì che le porte stagne erano chiuse e che il braccio era bloccato, ma nella paratia primaria c’erano squarci tanto larghi da far passare un VEM commerciale.

La nave sbandò di nuovo e cominciò a ruzzolare pazzamente, imprimendo su Kassad e su ogni altro oggetto nuove e complesse forze di Coriolis. Kassad si aggrappò a uno spuntone metallico e s’infilò in uno squarcio dello scafo triplo della AE Merrick.

Scoppiò quasi a ridere, quando vide l’interno. Chiunque avesse colpito la vecchia nave ospedale, lo aveva fatto nel modo giusto, tagliando e perforando con i CPB lo scafo finché i sigilli di pressione avevano ceduto, le unità autosigillanti si erano guastate, i telecomandi di riparazione danni si erano sovraccaricati, le paratie interne erano crollate. Poi la nave nemica aveva lanciato nelle viscere dello scafo missili con quel tipo di testata che la gente della FORCE:spazio chiamava pittorescamente “a mitraglia”. Il risultato era stato molto simile a quello dell’esplosione di una granata antiuomo in un affollato labirinto di topi.

Da un migliaio di fori entrava della luce che si trasformava qua e là in raggi colorati, dove trovava una base colloidale nella nebbiolina di polvere, di sangue, d’olio lubrificante. Dal punto a cui era aggrappato, seguendo le sbandate e i capitomboli della nave, Kassad scorgeva una ventina di corpi nudi e maciullati, ciascuno dei quali si muoveva con l’ingannevole grazia da balletto sottomarino dei morti a gravità zero. Gran parte dei cadaveri fluttuava all’interno del proprio sistema solare di sangue e di brandelli di carne. Alcune vittime fissavano Kassad con uno sguardo da personaggi di cartone animato, dovuto agli occhi dilatati dalla decompressione: sembravano invitarlo ad accostarsi con languidi e casuali movimenti delle braccia e delle mani.

Sempre a colpi di tallone, Kassad attraversò le macerie per raggiungere il pozzo principale che portava al nucleo di comando. Non aveva visto armi (sembrava che nessuno, a parte il marine, fosse riuscito a indossare la tuta), ma sapeva che c’era una piccola armeria nel nucleo di comando o negli alloggiamenti dei marine, a poppa.

Si fermò all’ultima porta stagna divelta e rimase a guardare. Questa volta scoppiò a ridere. Da lì in avanti non c’era né pozzo principale, né sezione poppiera: non c’era più nave e basta. Quella sezione (un modulo a braccio con un padiglione medico, frammento rovinato dello scafo) era stato strappato dal corpo della nave con la stessa facilità con cui Beowulf aveva strappato il braccio a Grendel. L’ultima porta del pozzo, divelta, dava sullo spazio aperto. A qualche chilometro di distanza si vedevano decine di parti rovinate della AE Merrick che ruzzolavano nel bagliore ardente del sole. Un pianeta verde e azzurro incombeva a così breve distanza che Kassad ebbe un attacco d’acrofobia e si aggrappò con forza maggiore all’intelaiatura della porta. In quel momento, una stella si mosse sopra il limbo del pianeta: le armi laser palpitarono del loro morse color rubino e una sezione sventrata di nave, a mezzo chilometro di distanza nell’abisso vuoto dello spazio, scoppiò di nuovo in schizzi di metallo vaporizzato, di materie volatili congelate, di neri puntini roteanti che erano corpi umani.