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Kassad si ritirò al riparo dell’intrico di relitti e meditò sulla situazione. La tuta del marine non sarebbe durata più di un’altra ora (già si sentiva il puzzo di uova marce dovuto al cattivo funzionamento del riciclo-respiratore) e durante il faticoso tragitto fra i rottami non aveva visto compartimenti o contenitori a tenuta stagna. Ma se anche avesse trovato uno stanzino o una camera stagna in cui rifugiarsi, cos’avrebbe fatto? Non sapeva se il pianeta sotto di lui fosse Hyperion o Garden, ma era sicuro che la FORCE non era presente su nessuno di quei due mondi. E che le difese locali non avrebbero sfidato una nave da guerra Ouster. Sarebbero trascorsi giorni interi, prima che una pattuglia venisse a indagare sul disastro. Era molto probabile che, prima dell’arrivo di una squadra di controllo, l’orbita del traballante pezzo d’immondizia nel quale lui ora si trovava decadesse, e che migliaia di tonnellate di metallo contorto precipitassero bruciando nell’atmosfera. Ai locali non sarebbe piaciuto; ma, dal loro punto di vista, forse era preferibile che cadesse un pezzetto di cielo, anziché affrontare gli Ouster. Se il pianeta possedeva primitive difese orbitali o missili CPB con base a terra, pensò Kassad con un sorriso torvo, i suoi abitanti avrebbero fatto meglio a far saltare in aria il relitto, anziché aprire il fuoco contro la nave degli Ouster.

Per lui non avrebbe fatto differenza. Se non avesse escogitato in fretta qualcosa, sarebbe stato morto da tempo, prima che i resti della nave medica entrassero nell’atmosfera o che i locali intervenissero.

Lo shrapnel aveva crepato lo schermo amplificatore del marine, ma Kassad calò sul visore i resti della piastra display. Le spie brillavano di luce rossa, ma la tuta aveva ancora energia sufficiente a mostrare tra la ragnatela di crepe il chiaro bagliore verdastro della vista amplificata. Kassad guardò la nave-torcia degli Ouster, ferma a un centinaio di chilometri, con gli schermi difensivi che rendevano confuse le stelle sullo sfondo, lanciare alcuni oggetti. Per un istante fu sicuro che fossero missili per il colpo di grazia, e sogghignò amaramente al pensiero d’avere solo alcuni secondi di vita. Poi notò che gli oggetti avanzavano a bassa velocità e aumentò di qualche tacca il grado d’amplificazione. Le luci spia diventarono rosse e l’amplificatore cessò di funzionare, ma Kassad aveva avuto il tempo di notare le affusolate sagome ovoidali, chiazzate di propulsori a reazione e di abitacoli a torretta, che si trascinavano dietro una coda di sei bracci snodati di manipolazione: le “seppie”, come la FORCE:spazio chiamava il naviglio d’assalto degli Ouster.

Kassad si ritirò maggiormente al riparo nel relitto. Aveva ancora qualche minuto, prima che una o più seppie raggiungessero la sezione di nave su cui si trovava. Quanti Ouster portava, una di quelle seppie? Dieci? Venti? Kassad era sicuro che non fossero meno di dieci. Ben armati e provvisti di rivelatori di calore corporeo e di eventuali movimenti. L’equivalente elitario Ouster dei Marine Spaziali dell’Egemonia: commando non solo addestrati a combattere in caduta libera, ma nati e cresciuti in ambienti a gravità zero. Gli arti allungati, i piedi prensili e la coda protesica conferivano loro altri vantaggi in quell’ambiente, anche se, secondo lui, di assi nella manica in quel momento ne avevano già a sufficienza.

Iniziò a ritirarsi con cautela nel labirinto di metallo contorto, cercando di dominare l’afflusso di adrenalina provocato dalla paura, che lo spingeva a fuggire gridando nel buio. “Che cosa volevano?” Prigionieri. Questo avrebbe risolto il problema immediato: per sopravvivere bastava arrendersi. C’era un’unica difficoltà: Kassad aveva visto le olografie della FORCE:informazioni riguardanti la nave Ouster catturata intorno a Bressia. L’area di magazzinaggio della nave aveva ospitato più di duecento prigionieri. E gli Ouster avevano ovviamente molte domande da porre, ai cittadini dell’Egemonia. Forse avevano trovato scomodo nutrire e tenere sotto custodia tante persone, o forse era quella la loro normale politica per gli interrogatori; fatto sta che i prigionieri, civili bressiani e militari della FORCE, erano stati scorticati e fissati a lastre d’acciaio, come rane in un laboratorio di biologia, con gli organi a bagno in liquidi nutritivi, le braccia e le gambe efficientemente amputate, gli occhi rimossi, il cervello pronto per le domande grazie a rozze sonde corticali computerizzate e a spinotti di derivazione infilati in fori di tre centimetri praticati nel cranio.

Kassad continuò a ritirarsi, galleggiando fra i detriti e l’intrico di cablaggi della nave. Non aveva la minima voglia d’arrendersi. Lo scafo traballante vibrò, poi si stabilizzò, quando almeno una seppia si agganciò alle paratie. “Pensa” ordinò Kassad a se stesso. Gli serviva un’arma, più che un nascondiglio. Mentre strisciava fra i detriti, aveva visto qualcosa che potesse aiutarlo a sopravvivere?

Smise di muoversi e si aggrappò a un tratto scoperto di cavo a fibre ottiche, per riflettere. Il padiglione medico in cui si era svegliato. Letti, serbatoi per crio-fuga, strumenti per cure intensive erano quasi tutti fuoriusciti dagli squarci nello scafo del modulo spin. Pozzo del braccio, gabbia d’ascensore, cadaveri sulla scala a chiocciola. Niente armi. L’esplosione delle mitragliatrici o l’improvvisa decompressione avevano spogliato completamente gran parte dei cadaveri. I cavi dell’ascensore? No, troppo lunghi, impossibili da tagliare senza utensili. Utensili? Non ne aveva visti. Gli uffici medici sventrati lungo i corridoi più in là del pozzo principale. Sale per esami medici, vasche MRI e scomparti CPD spalancati come sarcofagi saccheggiati. Almeno una sala operatoria intatta, ma ridotta a un labirinto di strumenti sparpagliati e di cavi galleggianti. Il solarium, svuotato completamente dall’esplosione delle vetrate. Salette per i pazienti. Salette per i medici. Locali per il lavaggio antisettico, corridoi, stanzini d’uso non identificabile. I cadaveri.

Kassad rimase lì ancora un secondo, si orientò nel traballante labirinto di luci e ombre, poi con un colpo di tallone si diede la spinta.

Sperava d’avere dieci minuti di tempo: gliene furono concessi otto. Sapeva che gli Ouster erano metodici ed efficienti, ma aveva sottovalutato con quanta efficienza si muovevano in ambienti a gravità zero. Si giocò la vita sull’ipotesi che ogni squadra d’ispezione comprendesse almeno due individui… procedura tipica dei marine spaziali, analoga a quella delle teste di cuoio della FORCE: terra che nella guerriglia urbana andavano di porta in porta: uno entrava di sorpresa e l’altro forniva il fuoco di copertura. Se gli Ouster erano più di due, se per esempio operavano in squadre di quattro, Kassad poteva considerarsi spacciato.

Galleggiava a mezz’aria, nel centro della Sala Operatoria 3, quando l’Ouster si precipitò dentro. Il riciclo-respiratore si era quasi esaurito e Kassad boccheggiava nell’aria viziata: il commando Ouster entrò, balzò di lato e puntò le armi sulla figura disarmata nella malconcia tuta da marine.

Kassad aveva immaginato che l’aspetto orribile della tuta e del visore gli avrebbe fatto guadagnare un secondo, forse due. Dietro la piastra macchiata di sangue i suoi occhi rimasero fissi verso l’alto, mentre la luce pettorale dell’Ouster lo illuminava. Il commando aveva due armi: in mano, uno storditore sonico e, fra le lunghe dita del “piede” sinistro, una pistola a raggio ristretto molto più letale. Alzò lo storditore. Kassad ebbe il tempo di notare la micidiale punta della coda protesica, poi azionò il mouse del guanto destro.

Aveva impiegato gran parte degli otto minuti a collegare ai circuiti della sala operatoria il generatore d’emergenza. Non tutti i laser chirurgici erano rimasti intatti, ma sei funzionavano ancora. Aveva sistemato i quattro più piccoli in modo da coprire l’area subito a sinistra del vano della porta e aveva puntato contro lo spazio a destra i due laser per tagliare le ossa. L’Ouster era andato a destra.