La tuta dell’Ouster esplose. I laser continuarono a tagliare secondo il movimento rotatorio programmato, mentre Kassad si dava una spinta in avanti e si chinava sotto i raggi azzurri che ora roteavano in una nebbiolina sempre più larga d’inutile sigillante per tuta e di sangue ribollente. Strappò al cadavere lo storditore sonico appena un attimo prima che il secondo Ouster entrasse nella sala, agile come una scimmia della Vecchia Terra.
Kassad premette contro il casco dell’uomo lo storditore e sparò. La figura in tuta si accasciò, inerte. La coda protesica si agitò un paio di volte, mossa da impulsi nervosi casuali. Azionare lo storditore a così breve distanza non era il modo migliore per prendere prigionieri: la scarica riduceva il cervello umano a qualcosa di simile a una poltiglia di farina d’avena. Ma Kassad non voleva prendere prigionieri.
Si liberò dell’avversario, si afferrò a una trave maestra e sventagliò con una scarica sonica il vano della porta. Nessun altro entrò. Venti secondi dopo, un controllo gli disse che il corridoio era vuoto.
Kassad ignorò il primo cadavere e denudò il secondo, quello con la tuta intatta. Sotto, il commando non indossava niente: risultò che non era un uomo, ma una donna coi capelli biondi tagliati corti, i seni piccoli, un tatuaggio appena più in alto dei peli pubici. Era molto pallida; intorno al viso galleggiavano goccioline di sangue uscito dal naso, dalle orecchie, dagli occhi. Kassad prese un appunto mentale: gli Ouster impiegavano anche le donne, nei marine. Su Bressia, tutti i cadaveri erano stati di Ouster maschi.
Tenne il casco e il respiratore, allontanò con un calcio il cadavere e indossò la tuta poco familiare. L’esposizione al vuoto gli fece esplodere alcuni vasi sanguigni a fior di pelle. Kassad fu attanagliato da un gelo intenso, mentre cercava di aprire ganci e chiusure insolite. Alto com’era, era comunque troppo basso per la tuta della donna. Tirandoli, poteva far funzionare i guanti per le mani, ma quelli per i piedi e le connessioni caudali erano inutilizzabili. Li lasciò perdere, e si tolse il casco per infilarsi a fatica quello della donna Ouster.
Le luci del diskey intorno al collo brillarono d’ambra e di viola. Kassad sentì l’aria precipitarsi nei timpani doloranti e quasi soffocò, quando fu assalito da un puzzo intenso e greve. Immaginò che per un Ouster fosse il dolce profumo di casa. Le chiazze auricolari del casco mormorarono comandi in codice, in una lingua che sembrava un nastro audio d’Inglese Antico fatto andare a rovescio e ad alta velocità. Kassad giocava di nuovo d’azzardo, puntando stavolta sul fatto che su Bressia le unità a terra degli Ouster agivano come squadre semi-autonome, collegate tramite radio vocali e semplici apparecchiature per la trasmissione dati, anziché mediante una rete tattica impiantata come avveniva per la FORCE:terra. Se lì si comportavano allo stesso modo, allora forse il capo del commando sapeva già che due dei suoi, o delle sue, mancavano; forse aveva anche a disposizione i dati medici dei due, ma non sapeva esattamente dove si trovavano.
Kassad decise che era il momento di lasciar perdere le ipotesi e darsi da fare. Programmò il mouse in modo che i laser chirurgici colpissero qualsiasi cosa entrasse nella sala operatoria; poi percorse il corridoio, a urti e spinte. Muoversi dentro una di quelle maledette tute, pensò, era come camminare in un campo gravitazionale pestandosi i calzoni. Aveva preso con sé tutt’e due le pistole a energia e, non trovando una cintura, né anelli, ganci, cuscinetti velcro, giberne o tasche dove tenerli, procedeva galleggiando come un pirata ubriaco uscito da un film tri-di, un’arma per mano, rimbalzando da parete a parete. Di malavoglia, si lasciò alle spalle una pistola per avanzare agganciandosi almeno con una mano. La maledetta coda dondolava, sbatteva contro l’elmetto a bolla e gli tormentava le natiche.
Due volte Kassad si rannicchiò al riparo, scorgendo alcune luci lontane. Ora si trovava proprio sopra l’apertura del ponte da dove aveva osservato l’arrivo della seppia; girò l’angolo e andò quasi a sbattere contro tre commando Ouster.
Il fatto d’indossare una tuta spaziale identica alla loro gli diede almeno due secondi di vantaggio. Sparò a bruciapelo al primo e lo colpì al casco. Il secondo — o la seconda — rispose con una scarica sonica a casaccio che passò sopra la spalla sinistra di Kassad, un attimo prima che quest’ultimo lo centrasse con tre colpi alla piastra toracica. Il terzo commando agitò le braccia per muoversi a ritroso, trovò tre appigli per i piedi e scomparve dietro una paratia squarciata prima che Kassad potesse prenderlo di mira. Nel casco di Kassad risuonarono imprecazioni, ordini, domande. Kassad inseguì in silenzio l’Ouster.
Il commando si sarebbe salvato, se non avesse ricordato dell’onore e non si fosse girato per combattere. Kassad provò un inesplicabile senso di déjà vu, quando da cinque metri lo centrò con una scarica all’occhio sinistro.
Il cadavere rotolò all’indietro nella luce del sole. Kassad si tirò fino all’apertura e guardò la seppia attraccare a meno di venti metri. Era, si disse, il primo vero colpo di fortuna degli ultimi tempi.
Con una spinta di talloni superò il varco, sapendo di non poter fare niente, se qualcuno, dalla seppia o dal relitto, intendeva sparargli. Provò quel raggrinzimento dello scroto che provava sempre quando era un chiaro bersaglio. Ma non sentì colpi. Ordini e domande gli risuonarono nelle orecchie. Kassad non capiva, non sapeva da dove provenivano e, tutto sommato, riteneva fosse meglio non partecipare alla conversazione.
Per la difficoltà a usare la tuta, a momenti fallì l’aggancio con la seppia. Per un attimo pensò che una fine così stupida, proprio nel momento culminante, sarebbe stata l’opportuno verdetto dell’universo sulle sue pretese marziali: l’eroico guerriero che galleggiava via lungo un’orbita planetaria, senza apparecchiature di manovra, senza propellente, senza massa di reazione di qualsiasi genere… perfino la pistola era del tipo senza rinculo. Avrebbe terminato di vivere, con la stessa inutilità e innocuità d’un palloncino sfuggito a un bimbo.
Kassad si allungò fin quasi a slogarsi le giunture, afferrò un’antenna e si tirò, una mano dopo l’altra, fino allo scafo della seppia.
Dove diavolo era il portello? Per essere lo scafo di un veicolo spaziale, era relativamente liscio, ma decorato con una quantità di disegni, decalcomanie e pannelli che proclamavano quello che Kassad presumeva fosse l’equivalente Ouster di: INGRESSO VIETATO e PERICOLO: PORTELLO DI PROPULSORE. Non si vedevano aperture. Immaginò che a bordo ci fossero degli Ouster, un pilota almeno, e che si chiedessero perché il loro commando di ritorno strisciasse intorno allo scafo, come un granchio con lo spavenio, anziché dirigersi al portello della camera di decompressione. Ma forse sapevano il vero motivo e lo aspettavano a pistole sguainate. Comunque, era chiaro che nessuno gli avrebbe aperto il portello.
“Al diavolo” si disse Kassad. Sparò contro una torretta d’osservazione.
Gli Ouster avevano una nave ordinata. Dallo squarcio, con l’aria della nave, fuoruscì poco più dell’equivalente di una manciata di fermagli smarriti e di monetine. Kassad aspettò che il getto si esaurisse, poi s’infilò nel varco.
Si trovò nella sezione adibita al trasporto truppe: un locale imbottito assai simile a quelli dei reparti assaltatori delle navette o dei veicoli corazzati di trasporto. Kassad prese l’appunto mentale che una seppia conteneva probabilmente una ventina di commando Ouster in tenuta da combattimento nello spazio. In quel momento era vuota. Un portello aperto immetteva nella cabina di pilotaggio.