Kassad aveva ben altro a cui pensare. Nella seppia, a quanto pareva, non c’erano comandi per il lancio col paracadute, né meccanismi di espulsione. Ogni navetta della FORCE:spazio era dotata di una sorta di apparecchiatura per l’uscita nell’atmosfera… un’usanza vecchia di almeno otto secoli, dell’epoca in cui il volo spaziale consisteva in semplici escursioni sperimentali appena al di là dell’atmosfera della Vecchia Terra. Era piuttosto raro che uno shuttle nave-nave avesse bisogno d’un meccanismo d’espulsione; ma paure vecchie di secoli, scritte in antichi regolamenti, erano dure a morire.
Così almeno diceva la teoria. Kassad non trovò niente. La navetta adesso vibrava, ruotava, cominciava a scaldarsi seriamente. Kassad si sganciò dalla poltroncina comando e si diresse nel retro della seppia. Non sapeva neppure lui che cosa cercava. Un’attrezzatura di sospensione? Un paracadute? Un paio d’ali?
Nella sezione trasporto truppe c’erano solo il cadavere del pilota e alcuni scomparti di deposito poco più grandi di cestini da viaggio. Kassad li frugò, ma non trovò niente di più grande di un medikit. Nessuna apparecchiatura miracolosa.
Sentiva già le vibrazioni della seppia e le prime avvisaglie della disintegrazione; si aggrappò a un anello imperniato e si vide costretto ad accettare il fatto che, per le loro seppie, gli Ouster non sprecavano soldi e spazio in attrezzature per salvataggi a bassa probabilità. Perché avrebbero dovuto? Gli Ouster trascorrevano la vita nelle tenebre fra i sistemi stellari; il loro concetto d’atmosfera era il tubo pressurizzato di otto chilometri che costituiva una città-bidone. Gli audiosensori esterni del casco iniziarono a raccogliere il sibilo rabbioso dell’aria che entrava nello scafo dalla torretta mozzata della sezione poppiera. Kassad si strinse nelle spalle: aveva giocato d’azzardo troppe volte e aveva perso.
La seppia vibrò e fece un balzo. I tentacoli di manipolazione di prua si strapparono. All’improvviso il cadavere dell’Ouster fu risucchiato fuori della torretta come una formica in un aspirapolvere. Kassad si tenne stretto all’anello e dal portello aperto guardò i sedili di pilotaggio nell’abitacolo. Rimase colpito dal pensiero che erano incredibilmente antiquati, come se fossero usciti da un libro sul volo spaziale dei primordi. Ormai alcune parti esterne della navetta bruciavano, si staccavano e rombavano davanti alle torrette d’osservazione come pezzi di lava. Kassad chiuse gli occhi e cercò di ricordare le lezioni della Scuola Comando Olympus sulla configurazione delle antiche navi spaziali. La seppia iniziò l’ultima capriola. Il frastuono era incredibile.
«Per Allah!» boccheggiò Kassad: un’esclamazione che non aveva più usato dagli anni d’infanzia. Si diresse verso l’abitacolo, puntando i piedi contro il portello aperto e cercando appigli sul ponte, come se si stesse arrampicando lungo una parete verticale. E in realtà faceva proprio questo. La seppia aveva ruotato su se stessa e si era stabilizzata in un micidiale tuffo di poppa. Kassad si arrampicò sotto un carico di 3 g: se fosse scivolato, si sarebbe rotto tutte le ossa. Alle sue spalle, il sibilo dell’atmosfera si trasformò in un urlo stridulo e poi in un ruggito di drago. La sezione trasporto truppe bruciava fra schizzi di metallo fuso.
Raggiungere il sedile di guida fu come superare una sporgenza rocciosa portando sulla schiena altri due scalatori. I goffi guanti resero la presa sul poggiatesta ancor meno sicura, quando rimase sospeso sul calderone infuocato della sezione trasporto. La navetta sbandò; Kassad eseguì un volteggio e si ritrovò sul sedile di comando. I display video erano spenti. Il calore surriscaldava la torretta, ormai d’un rosso nauseante. Kassad quasi svenne, quando si piegò a frugare con le dita nel buio sotto il sedile, fra le ginocchia. Niente. No… c’era una maniglia. Anzi, sant’Iddio e sant’Allah… un anello di salvataggio. Una reliquia dei libri di storia.
La seppia stava andando in pezzi. In alto, la torretta bruciava e schizzava perspex liquido dentro l’abitacolo, macchiando la tuta e il visore. Kassad sentì il puzzo della plastica fusa. La seppia girava su se stessa. La vista di Kassad diventò rosa, si affievolì, sparì. Le dita intorpidite si mossero a stringere l’imbracatura… sempre più stretta… o gli segava il petto oppure il perspex fuso si era aperto un varco. La mano tornò all’anello di sicurezza. Le dita erano troppo impacciate per afferrarlo… no. Tira!
Troppo tardi. La seppia, con uno stridio finale e un’ultima fiammata, andò in pezzi. La console di comando, ridotta in migliaia di frammenti grossi come shrapnel, squarciò l’abitacolo.
Kassad fu sbattuto contro il sedile. In alto. Fuori. Nel cuore delle fiamme.
Rotolò.
Mentre rotolava in aria, capì confusamente che il sedile proiettava un proprio campo di contenimento: le fiamme gli stavano infatti a qualche centimetro dal viso.
I pirogetti si accesero e scagliarono lontano dalla scia di fiamma della seppia il sedile eiettabile che lasciò nel cielo una scia azzurrina. I microprocessori lo fecero ruotare in modo che il disco del campo di forza si frapponesse tra Kassad e l’attrito ardente. Un gigante era seduto sul torace di Kassad, mentre decelerava a otto gravità in duemila chilometri di cielo.
Kassad aprì gli occhi, vide che era rannicchiato nel ventre di una lunga colonna di fiamma biancazzurra e li richiuse. Non vide nessuna traccia di comandi paracadute, né di apparecchi di sospensione, né di sistemi frenanti d’altro genere. Non aveva importanza. Tanto, non poteva muovere braccia e mani.
Il gigante cambiò posizione, diventò più pesante.
Kassad capì che una parte del casco si era fusa o era stata strappata via. Il frastuono era indescrivibile. Non aveva importanza.
Strinse forte gli occhi. Il momento buono per un sonnellino.
Kassad aprì gli occhi e vide la sagoma scura di una donna china su di lui. Per un secondo pensò che fosse lei. Guardò meglio e capì che era davvero lei. Con le dita fredde gli toccò la guancia.
«Sono morto?» mormorò Kassad, alzando la mano a stringerle il polso.
«No.» La voce era morbida e rauca, velata da un’inflessione appena accennata che lui non riuscì a inquadrare. Non aveva mai parlato, prima.
«Sei reale?»
«Sì.»
Kassad sospirò. Si guardò intorno. Giaceva nudo sotto un sottile rivestimento, su una sorta di divano o di piattaforma sistemata al centro di un locale buio e cavernoso. In alto, il soffitto squarciato lasciava vedere le stelle. Kassad alzò l’altra mano per toccarle la spalla. I capelli della donna erano un’aureola scura sopra di lui. Lei indossava un’ampia veste di stoffa leggera, che anche alla luce delle stelle rivelava i contorni del corpo. Kassad colse il profumo, accenno fragrante di sapone e di pelle e di lei, che conosceva tanto bene.
«Vorrai un mucchio di risposte» mormorò lei, mentre Kassad apriva il fermaglio dorato che reggeva la veste. Con un fruscio, l’ano scivolò a terra. Sotto, la donna non portava niente. In alto, la Via Lattea era chiaramente visibile.
«No» disse Kassad. E strinse a sé la donna.
Verso il mattino si levò la brezza, ma Kassad tirò addosso a sé e alla donna la coperta leggera. La stoffa sembrava trattenere tutto il calore del corpo; giacquero insieme in un tepore perfetto. Da qualche parte, sabbia o neve grattarono le pareti spoglie. Le stelle erano chiare e luminose.
Si svegliarono alla prima luce dell’alba, viso contro viso sotto il copriletto di seta. Lei passò la mano lungo il fianco di Kassad, trovò cicatrici vecchie e recenti.
«Ti chiami?» mormorò Kassad.
«Sst» sussurrò lei, facendo scivolare più in basso la mano.