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Kassad spostò il viso contro l’incavo del suo collo profumato. I seni erano morbidi, contro di lui. La notte impallidì nel mattino. Da qualche parte, sabbia o neve soffiarono contro le pareti spoglie.

Si amarono, dormirono, si amarono ancora. In pieno giorno si alzarono e si vestirono. Lei preparò per Kassad della biancheria, una veste grigia e un paio di calzoni. Erano delle giuste misure, come i calzini di spugna e i morbidi stivaletti. Lei indossò un abbigliamento analogo, blu marina.

«Ti chiami?» domandò Kassad, mentre uscivano dall’edificio con il soffitto a cupola squarciato e s’incamminavano in una città morta.

«Moneta» rispose il sogno di Kassad. «O Mnemosine. Quel che ti piace di più.»

«Moneta» mormorò Kassad. Guardò il piccolo sole nel cielo celeste. «Hyperion?»

«Sì.»

«Come sono atterrato? Campo di sospensione? Paracadute?»

«Sei sceso sotto un’ala di foglia d’oro.»

«Non sento dolori. Non ero ferito?»

«Sei stato curato.»

«Che posto è questo?»

«La Città dei Poeti. Abbandonata più di cent’anni fa. Dietro quella montagna ci sono le Tombe del Tempo.»

«Le navette d’assalto degli Ouster?»

«Una è atterrata qui vicino. Il Signore della Sofferenza ha preso sotto di sé l’equipaggio. Le altre due sono atterrate più lontano.»

«Chi è il Signore della Sofferenza?»

«Vieni» disse Moneta. La città morta terminava nel deserto. La sabbia fine scivolava sul marmo bianco semisepolto nelle dune. A ovest c’era una navetta Ouster, con i diaframmi a iride spalancati. Lì vicino, sopra una colonna caduta, un termocubo forniva caffè caldo e focaccine appena sfornate. Mangiarono e bevvero in silenzio.

Kassad cercò di ricordare le leggende su Hyperion. «Il Signore della Sofferenza è lo Shrike» disse alla fine.

«Certo.»

«Tu vieni dalla… dalla Città dei Poeti?»

Moneta sorrise e scosse lentamente la testa.

Kassad finì il caffè e posò la tazza. La sensazione di sognare permaneva, più intensa di quanto non fosse stata durante le esercitazioni simulate. Ma il caffè era piacevolmente amaro e il sole gli scaldava il viso e le mani.

«Vieni, Kassad» disse Moneta.

Attraversarono distese di sabbia fredda. Kassad si scoprì a lanciare occhiate al cielo, consapevole che la nave-torcia Ouster poteva colpirli dall’orbita… e poi ebbe l’improvvisa certezza che non sarebbe accaduto.

Le Tombe del Tempo si trovavano in una vallata. Un basso obelisco brillava debolmente. Una sfinge di pietra sembrava assorbirne la luce. Una complessa costruzione di colonne ritorte gettava ombre su se stessa. Altre tombe si stagliavano contro il sole sorgente. Ogni tomba aveva una porta, ogni porta era spalancata. Kassad sapeva che le porte erano spalancate già quando i primi esploratori avevano trovato le Tombe e che gli edifici erano vuoti. Più di tre secoli di ricerche di stanze nascoste, sepolcri, cripte e passaggi segreti erano stati inutili.

«Puoi arrivare solo fin qui» disse Moneta, quando si avvicinarono alla scarpata a un’estremità della valle. «Le maree del tempo sono forti, oggi.»

L’innesto tattico era muto. Kassad non aveva più comlog. Frugò nella memoria. «Ci sono campi di forza anti-entropici, intorno alle Tombe del Tempo» disse.

«Sì.»

«Le tombe sono antiche. I campi anti-entropici impediscono che invecchino.»

«No» disse Moneta. «Le maree del tempo spingono indietro le Tombe.»

«Indietro nel tempo» precisò scioccamente Kassad.

«Sì.»

«Guarda.»

Lucente, simile a un miraggio, un albero di spine d’acciaio spuntò dalla nebbiolina e dall’improvvisa tempesta di sabbia color ocra. Sembrò riempire la valle, innalzarsi per almeno duecento metri a livello della scarpata. I rami si mossero, si dissolsero, si riformarono, simili a elementi d’un ologramma mal sintonizzato. La luce del sole danzò su spine lunghe cinque metri. Cadaveri di Ouster, uomini e donne, tutti nudi, erano impalati su almeno una ventina di queste spine. Altri rami reggevano altri cadaveri. Non tutti umani.

La tempesta di polvere oscurò per un attimo la visuale e, quando il vento cessò, l’albero era sparito.

«Vieni» disse Moneta.

Kassad la seguì lungo l’orlo delle maree del tempo, evitando il riflusso dei campi anti-entropici, come un bambino che gioca a evitare le onde dell’oceano su una grande spiaggia. Sentì l’attrazione delle maree del tempo, come ondate di déjà vu che attirassero ogni cellula del suo corpo.

Appena più avanti, al di là dell’ingresso della valle, dove le alture si aprivano alle dune e basse brughiere portavano alla Città dei Poeti, Moneta toccò un muro di ardesia azzurra e aprì l’entrata di una stanza lunga e bassa, sulla parete della scarpata. «Stai qui?» domandò Kassad; ma vide immediatamente che la stanza non mostrava segni di essere abitata. Nelle pareti di pietra erano incassati alcuni scaffali e parecchie nicchie.

«Dobbiamo prepararci» sussurrò Moneta. La luce acquistò una tonalità dorata. Una lunga rastrelliera si abbassò con le sue terraglie. Dal soffitto, come una tenda, calò una striscia di polimero riflettente, sottile come un’ostia, che fungeva da specchio.

Kassad guardò, con la calma e la passività d’un sognatore, Moneta spogliarsi e poi togliere a lui i vestiti. La loro non era più nudità erotica; ma semplice rituale.

«Per anni sei stata nei miei sogni» disse Kassad.

«Sì. Il tuo passato. Il mio futuro. L’onda d’urto degli eventi si muove nel tempo come un’increspatura in uno stagno.»

Kassad batté le palpebre, mentre lei alzava una ferula d’oro e gli toccava il petto. Provò un lieve choc e la sua carne diventò uno specchio; la sua testa e il suo viso un ovoide privo di lineamenti che rifletteva tutte le tonalità e le consistenze della stanza. Un attimo dopo Moneta si unì a lui con il corpo trasformato in una cascata di riflessi, acqua sopra mercurio sopra cromo. Kassad vide la propria immagine riflessa e riflettente in ogni curva e in ogni muscolo del corpo di lei. I seni di Moneta afferrarono e piegarono la luce; i capezzoli si sollevarono come piccoli schizzi in uno stagno riflesso da uno specchio. Kassad l’abbracciò e sentì che i loro corpi fluivano insieme come liquidi magnetizzati. Sotto i campi connessi, la sua carne toccò quella di lei.

«I tuoi nemici aspettano al di là della città» mormorò Moneta. Il cromo del suo viso rifluì di luce.

«Nemici?»

«Gli Ouster. Quelli che ti hanno seguito qui.»

Kassad scosse la testa e vide la sua immagine riflessa compiere lo stesso gesto. «Non hanno più importanza.»

«Oh, sì» mormorò Moneta. «Il nemico ha sempre importanza. Devi armarti.»

«Con quali armi?» Ma mentre lo diceva, Kassad si accorse che lei lo toccava con una sfera di bronzo, un toroide azzurro opaco. Il suo stesso corpo alterato gli parlò ora con la chiarezza d’un soldato semplice che fa rapporto sul circuito di comando innestato. Sentì una grande sete di sangue crescergli spaventosamente dentro.

«Vieni.» Moneta lo guidò di nuovo nel deserto. La luce del sole sembrava polarizzata e densa. Kassad ebbe la sensazione di scivolare sulle dune, di fluire come un liquido per le vie di marmo bianco della città morta. Nei pressi del confine occidentale, accanto alle macerie di un edificio che ancora portava l’architrave istoriato dell’Anfiteatro dei Poeti, c’era qualcosa in attesa.

Per un istante Kassad pensò che fosse un’altra persona che portava gli stessi campi di forza color cromo in cui lui e Moneta erano avviluppati… ma solo per un istante. In quella particolare costruzione mercurio-su-cromo non c’era niente di umano. Come in un sogno, Kassad vide le quattro braccia, le lame delle unghie retrattili, la profusione di spine sulla gola, la fronte, i polsi, le ginocchia e il corpo intero; ma non una sola volta il suo sguardo lasciò gli occhi dalle mille sfaccettature, ardenti d’una fiamma rossa che faceva impallidire il sole e oscurava il giorno riducendolo a un’ombra sanguigna.