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— Maledizione! — imprecò Martin Sileno.

— Chi è stato? — domandò padre Hoyt. — Lo Shrike?

— Le FAD, piuttosto — rispose il Console. — Anche se forse combattevano lo Shrike.

— Non posso crederci! — esclamò bruscamente Brawne Lamia. Si rivolse ad A. Bettik, che si era appena unito a loro sul ponte di poppa. — Tu non ne sapevi niente?

— No — rispose l’androide. — Da più d’una settimana non abbiamo avuto contatti con i punti a nord delle chiuse.

— Come mai? Anche se questo mondo dimenticato da Dio non possiede una sfera dati, le radio ci saranno.

A. Bettik sorrise lievemente. — Sì, signora Lamia. La radio c’è, ma i satelliti per le telecomunicazioni sono stati abbattuti, la stazione ripetitrice a microonde delle chiuse Karla è stata distrutta e non abbiamo accesso alle onde corte.

— E le mante? — domandò Kassad. — Possiamo continuare fino all’Orlo, con quelle che abbiamo?

Bettik corrugò la fronte. — Dovremo riuscirci, colonnello — rispose. — Ma è criminale. Le due già attaccate non si riprenderanno più da uno sforzo simile. Con mante fresche saremmo arrivati all’Orlo prima dell’alba. Con queste due… — L’androide si strinse nelle spalle. — Se avremo fortuna, e se i due animali sopravviveranno, arriveremo nel primo pomeriggio…

— Il carro a vela ci sarà ancora, vero? — domandò Het Masteen.

— Ritengo di sì — rispose A. Bettik. — Chiedo scusa, devo provvedere a nutrire le povere bestie che ci restano. Dovremmo rimetterci in viaggio entro un’ora.

Non videro nessuno, fra le macerie di Naiade e nei dintorni. Nessuna imbarcazione fluviale comparve a monte della città. Dopo un’ora di traino verso nordest, entrarono in una regione dove foreste e fattorie del basso Hoolie lasciavano il posto all’ondulata prateria arancione a sud del mare d’Erba. Di tanto in tanto il Console scorgeva le torri di fango delle formiche-architetto: in qualche caso, nei pressi del fiume le loro costruzioni seghettate raggiungevano i dieci metri d’altezza. Non c’era segno di abitazioni umane intatte. Il traghetto del guado Betty era scomparso: non c’era nemmeno una fune da rimorchio, né una baracca di riscaldamento, a indicare il punto dove per quasi due secoli aveva funzionato. La locanda dei Corridori Fluviali, a punta Grotta, era buia e silenziosa. A. Bettik e altri membri dell’equipaggio lanciarono richiami, ma dall’ingresso buio della grotta non venne nessuna risposta.

Il tramonto portò sul fiume una calma sensuale, presto interrotta da un coro di insetti e dai richiami degli uccelli notturni. Per un po’ la superficie dell’Hoolie rispecchiò il disco grigioverde del sole al tramonto, disturbata solo dai balzi dei pesci che si cibavano al crepuscolo e dalla scia delle mante affaticate. Quando scese l’oscurità vera e propria, innumerevoli ragnatelidi della prateria, molto più chiari dei loro cugini delle foreste e dotati di maggiore ampiezza alare — sagome luminescenti della grandezza d’un bambino — danzarono negli avvallamenti delle alture ondulate. Quando spuntarono le costellazioni e le scie delle meteore cominciarono a sfregiare il cielo notturno, vivido spettacolo molto lontano da qualsiasi luce prodotta da mano d’uomo, a bordo furono accese le lanterne e sul ponte di poppa fu servita la cena.

I pellegrini Shrike erano giù di morale, come se ancora stessero meditando sul racconto sinistro e confuso del colonnello Kassad. Il Console aveva bevuto in continuazione da prima di mezzogiorno, e adesso sentiva un piacevole senso di distacco… dalla realtà, dal dolore dei ricordi… che gli permetteva di superare i giorni e le notti. Ora, con voce cauta e non impastata, come può esserlo solo quella del vero alcolizzato, domandò a chi toccava raccontare la propria storia.

— A me — disse Martin Sileno. Anche il poeta aveva bevuto in continuazione dal primo mattino. Come il Console, teneva sotto controllo la voce, ma il rossore delle guance affilate e una luce quasi di follia negli occhi lo tradivano. — Almeno, ho tirato io il numero tre… — Tenne in piena vista la strisciolina di carta. — Se volete ancora sentire la maledetta storia.

Brawne Lamia alzò il bicchiere di vino, si accigliò, tornò a posarlo. — Forse sarebbe meglio discutere cosa ci hanno insegnato le prime due storie e come si colleghino alla nostra… situazione attuale.

— È presto — disse il colonnello Kassad. — Non abbiamo ancora dati sufficienti.

— Sentiamo prima Sileno — disse Sol Weintraub. — Poi cominceremo a discutere quel che abbiamo sentito.

— D’accordo — disse Lenar Hoyt.

Het Masteen e il Console annuirono.

— Benissimo! — esclamò Martin Sileno. — Vi racconterò la mia storia. Lasciatemi solo finire questo merdoso bicchiere di vino.

IL RACCONTO DEL POETA

Canti di Hyperion

In principio era il Verbo. Poi venne il verb-processor del cazzo. Poi il pensiero-processor. Poi la morte della letteratura. Va così.

Francesco Bacone disse una volta: “Deriva da una brutta e inetta formazione di parole una prodigiosa ostruzione della mente”. Tutti noi abbiamo contribuito alla nostra prodigiosa ostruzione della mente, non è vero? Io più di tanti. Uno dei migliori, dimenticati scrittori del Ventesimo secolo… proprio così, migliori-virgola-dimenticati… una volta se ne uscì con questo bon mot: “Fare lo scrittore mi piace: quel che non sopporto è mettere le parole sulla carta”. Capito? Bene, amigos e piccola amiga, mi piace essere un poeta: quel che non sopporto sono le stramaledette parole.

Da dove comincio?

Da Hyperion, forse?

(Dissolvenza) Quasi due secoli standard fa.

Cinque navi coloniali di re Billy il Triste rotano come soffioni dorati sopra questo fin troppo familiare cielo color lapislazzulì. Atterriamo come conquistadores e incediamo impettiti avanti e indietro: più di duemila artisti visuali, scrittori, scultori, poeti, ARNisti, videocreatori, olo-registi, compositori, decompositori e Dio sa che altro, rafforzati da un numero quintiplo di amministratori, tecnici, ecologisti, supervisori, ciambellani di corte e baciaculo di mestiere, senza contare gli stronzi stessi della famiglia reale, rafforzati a loro volta da dieci volte tanti androidi disposti ad arare la terra, tenere accesi i reattori, costruire città, alzare quella cassa, muovere quel carico… diavolo, l’idea ce l’avete.

Scendemmo su un mondo già colonizzato da poveri stronzi trasformati in indigeni due secoli prima, che vivevano e lottavano come e dove Dio gliela mandava. Ovviamente i nobili discendenti di questi pionieri coraggiosi ci accolsero come dèi (soprattutto quando alcune nostre guardie di sicurezza stirarono un paio dei caporioni più aggressivi) e ovviamente accettammo come dovuta la loro adorazione e li mettemmo al lavoro a fianco dei nostri pelleblù, ad arare il mar d’Erba meridionale e a costruire la nostra scintillante città sulla montagna.

Ed era davvero una scintillante città sulla montagna. Le rovine visibili oggi non dicono niente della magnificenza del posto. Il deserto è avanzato, in tre secoli, gli acquedotti che scendevano dalle montagne sono crollati, la città stessa è solo ossa. Ma, ai suoi tempi, la Città dei Poeti era davvero bella, un pizzico dell’Atene di Socrate, con l’entusiasmo intellettuale della Venezia del Rinascimento, il fervore artistico della Parigi degli Impressionisti, la vera democrazia del primo decennio di Orbit City e il futuro illimitato di Tau Ceti Centro.

Però, alla fin fine, non era niente di tutto questo, ovviamente. Era solo il prato claustrofobico di Hrothgar, con il mostro in attesa nelle tenebre esterne. Avevamo il nostro Grendel, certo. Avevamo anche il nostro Hrothgar, se si guarda un po’ di sghembo il profilo dinoccolato di re Billy il Triste. Ci mancavano solo i nostri Geats; il nostro grande Beowulf, dalle spalle larghe e dal cervello minuscolo, con la sua banda di allegri psicopatici. Così, non avendo un Eroe, ci adattammo al ruolo di vittime e componemmo i nostri sonetti e riprovammo i nostri balletti e svolgemmo i nostri rotoli di pergamena, mentre per tutto il tempo il nostro Grendel di spine e d’acciaio riempiva di paura la notte e mieteva femori e cartilagini.