E questo, quando io (un satiro a quel tempo, formato in carne a specchio della mia anima) arrivai vicino a completare i Canti, l’opera della mia vita, più di quanto non ci sia arrivato in cinque tristi secoli d’ostinata continuazione.
(Dissolvenza in nero).
Mi viene in mente che il racconto di Grendel è prematuro. Gli attori non sono stati portati sul palcoscenico. L’intreccio non lineare e la prosa non contigua hanno i loro fautori, fra i quali non sono certo io il meno importante; ma alla fine, amici miei, è il personaggio che guadagna o perde l’immortalità sulla pergamena. Non avete mai ospitato il pensiero segreto che da qualche parte Huck e Jim, in questo preciso istante, spingono la loro zattera lungo un fiume appena al di là della nostra portata, tanto sono più reali del commesso del negozio di scarpe che ci ha servito solo un dimenticato giorno fa? A ogni modo, se bisogna raccontare questa stronzissima storia, dovete sapere chi c’è dentro. Perciò, per quanto mi addolori, torno all’inizio dell’inizio.
In principio era il Verbo. E il Verbo era programmato nel classico binario. E il Verbo disse: «Sia la vita!». E così, in qualche punto delle cripte del TecnoNucleo, nella tenuta di mia madre, lo sperma congelato di Papà morto da tempo fu scongelato, messo in sospensione, agitato come i malti alla vaniglia d’un tempo, caricato in un affare in parte siringa a spruzzo e in parte pene artificiale, e poi — tocco magico d’un grilletto — eiaculato dentro Mamma, in un periodo in cui la luna era piena e l’uovo era maturo.
Ovviamente, per restare incinta Mamma non era obbligata a usare questo sistema barbaro. Avrebbe potuto scegliere la fertilizzazione ex utero, un amante con un innesto del DNA di Papà, un surrogato clonale, una nascita partenogenetica per sdoppiamento dei geni o quel che vi pare… ma, come mi disse in seguito, aprì le cosce alla tradizione. Sospetto che preferisse il sistema naturale.
Ad ogni modo, nacqui.
Nacqui sulla Terra… la Vecchia Terra… e tu, Lamia, vaffanculo se non ci credi. Stavamo nella tenuta di Mamma, in un’isola non distante dalla Riserva Nordamericana.
Note per un bozzetto della casa sulla Vecchia Terra:
Fragili crepuscoli che si dissolvono dal violetto al fucsia al viola, sopra profili di carta crespata d’alberi al di là della distesa meridionale di prato. Cieli delicati come porcellana trasparente, non segnati da nuvole né da scie di condensazione. Il silenzio presinfonico della prima luce, seguito dal clangore di cimbali dell’aurora. Arancioni e rossicci che s’accendono in oro; la lunga, fredda discesa nel verde: ombra di foglia, oscurità, filamenti di cipresso e di salice piangente, il velluto verde smorto della palude.
La tenuta di Mamma, la nostra tenuta: mille acri incentrati in un altro milione. Prati vasti come piccole praterie, erba così perfetta da invitare il corpo a distendersi, a sonnecchiare sulla sua morbida perfezione. Nobili alberi fronzuti, meridiane della terra, con l’ombra che girava in tondo in grandiosa processione ora confondendosi, ora contraendosi a mezzodì, infine allungandosi verso oriente con il morir del giorno. Quercia reale. Olmi giganteschi. Pioppo nero e cipresso e sequoia e bonsai. Baniani che calavano nuovi tronchi simili a levigate colonne d’un tempio col cielo per tetto. Salici che bordavano canali ben tracciati e ruscelli casuali, rami pendenti che intonavano al vento antichi canti funebri.
La nostra casa sorge sopra una bassa collina dove, d’inverno, le curve scure del prato sembrano i fianchi lisci d’una belva tutta muscoli nata per correre. La casa mostra secoli d’aggiunte: una torre di giada, sulla corte orientale, cattura la prima luce dell’alba; una serie di timpani, nell’ala sud, getta triangoli d’ombra sui vetri della serra all’ora del tè; le terrazze e il labirinto di scale esterne lungo i porticati orientali giocano con le ombre del pomeriggio formando disegni di Escher.
Era dopo il Grande Errore, ma prima che tutto diventasse inabitabile. In genere occupavamo la tenuta durante quelli che chiamavamo “periodi di perdono”… variabili da dieci a diciotto mesi tranquilli fra gli spasmi planetari, mentre il maledetto buco nero della Squadra Kiev digeriva pezzetti del centro della Terra e aspettava il festino seguente. Nei “giorni brutti”, andavamo in vacanza da zio Kowa, al di là della Luna, su un asteroide terraformato, portato lì prima della migrazione Ouster.
Potreste già dire che sono nato con la camicia sul culo. Non cerco scuse. Dopo tremila anni a sguazzare nella democrazia, le ultime famiglie della Vecchia Terra erano arrivate alla conclusione che l’unico modo per evitare una simile marmaglia era quello di non permettere che si riproducesse. 0, piuttosto, di sponsorizzare flotte di navi coloniali, esplorazioni con spin-navi, migrazioni con il nuovo teleporter… tutta la sconvolta urgenza dell’Egira… purché si riproducessero là fuori e lasciassero in pace la Vecchia Terra. Il fatto che il mondo natale fosse una vecchia puttana malata non attenuò l’impulso a colonizzare della marmaglia. Mica stupidi, quelli.
E, come Buddha, ero quasi adulto, prima di vedere il primo accenno della povertà. Avevo sedici anni standard, trascorrevo il mio Wanderjahr e vagabondavo per l’India, quando vidi un mendicante. Le Vecchie Famiglie indù li tenevano per motivi religiosi, ma a quel tempo sapevo solo che lì c’era un uomo vestito di stracci che mostrava le costole e tendeva un canestro di giunco con dentro un antiquato diskey di credito, elemosinando un tocco della mia carta universale. I miei amici pensarono che fossi isterico. Vomitai. Accadde a Benares.
La mia infanzia fu privilegiata, ma non in modo disgustoso. Ho piacevoli ricordi delle famose feste di Grande Dame Sybil (una prozia da parte di madre). Ne ricordo una di tre giorni, organizzata nell’arcipelago Manhattan, con ospiti venuti in navetta da Orbit City e dalle arcologie dell’Europa. Ricordo l’Empire State Building innalzarsi dalle acque, riflettere le luci nelle lagune e nei canali bordati di felci; sul pontile panoramico i VEM scaricavano passeggeri, mentre fuochi di cottura ardevano sulle montagnole circondate dall’acqua, piene d’erbacce, degli edifici più bassi.
In quei giorni, la Riserva Nordamericana era il nostro terreno di giochi privato. Si diceva che circa ottomila individui abitavano ancora quel misterioso continente, ma per metà erano ranger. L’altra metà comprendeva gli ARNisti fuorilegge che esercitavano il loro mestiere resuscitando specie di piante e di animali da lungo tempo assenti dall’ambiente antidiluviano del Nordamerica, gli ingegneri ecologici, primitivi patentati come i Sioux Ogalalla o la Gilda degli Angeli dell’Inferno, e qualche occasionale turista. Avevo un cugino che si diceva andasse in giro per la Riserva da una zona d’osservazione all’altra; ma si manteneva nel Midwest, dove le varie zone erano relativamente vicine e le orde di dinosauri molto meno numerose.
Nel primo secolo dopo il Grande Errore, Gea era ferita a morte ma lenta a morire. La devastazione era grande, nei Tempi Brutti… e questi arrivavano spesso in spasmi precisamente progettati, brevi periodi d’intervallo, conseguenze sempre più terribili dopo ogni attacco… ma la Terra continuava a esistere e si autoriparava al meglio.
La Riserva era, come ho detto, il nostro terreno di giochi; ma a ben vedere lo stesso valeva per tutta la Terra moribonda. A diciassette anni Mamma mi permise d’avere un VEM personale: non c’era posto al mondo che distasse da casa più di un’ora di volo. Il mio migliore amico, Amalfi Schwartz, viveva nelle Tenute di monte Erebus, in quella che un tempo era stata la Repubblica Antartica. Ci vedevamo ogni giorno. La proibizione dei teleporter sulla Vecchia Terra non ci dava il minimo fastidio: sdraiati di notte su qualche collina a guardare le diecimila Luci Orbitanti e i ventimila fari dell’Anello e le due o tremila stelle visibili non eravamo invidiosi, non sentivamo l’impulso di unirci all’Egira che già allora filava la seta del teleporter per formare la ragnatela dei Mondi. Eravamo felici.