Выбрать главу

I miei ricordi di Mamma sono bizzarramente stilizzati, come se lei fosse un’altra creazione fantastica dei miei romanzi sul Crepuscolo di un mondo. E forse lo era. Forse fui allevato da robot nelle città automatizzate dell’Europa, allattato da androidi nel Deserto dell’Amazzonia, o semplicemente fatto crescere in una vasca, come lievito di birraio. Ricordo la veste bianca di Mamma scivolare come un fantasma fra le stanze in penombra della tenuta; vene bluastre, infinitamente delicate, sul dorso della mano dalle dita sottili, mentre lei versava il tè nella penombra damaschina e polverosa della serra; la luce di candela imprigionata come una mosca d’oro nella splendente ragnatela dei suoi capelli raccolti in crocchia nello stile delle Grandes Dames. A volte sogno di ricordare la sua voce, la cadenza e la rotondità del tono, ma poi mi sveglio ed è solo il vento che muove una tendina di merletto, o lo sciaguattio d’un mare alieno sulla pietra.

Da quando fui in grado di capire, seppi che sarei diventato… che sarei dovuto diventare… un poeta. Non come se non avessi scelta, ma come se la bellezza morente tutt’intorno soffiasse dentro di me il suo ultimo alito e mi condannasse per il resto dei miei giorni a giocare con le parole, quasi a espiare lo spensierato massacro del mondo natale effettuato dalla nostra razza. Così, al diavolo!, diventai poeta.

Ebbi un tutore che si chiamava Balthazar, umano ma vecchissimo, un profugo dei puzzolenti vicoli dell’antica Alessandria. Balthazar brillava quasi di luce biancazzurra, dovuta ai primi trattamenti Poulsen: sembrava una mummia irradiata, chiusa in plastica liquida. E libidinosa come il proverbiale mandrillo. Secoli dopo, nel mio periodo da satiro, ritenni di capire finalmente le pulsioni priapiche del povero don Balthazar; ma in quei giorni il mio tutore era soprattutto un ostacolo alla presenza di ragazze giovani nel personale della tenuta. Umane o androidi, per don Balthazar era lo stesso: le molestava tutte.

Per mia fortuna, non c’erano propensioni omosessuali nella passione di don Balthazar per la carne giovane: quindi le sue scappatelle avevano come risultato o l’assenza nelle ore d’insegnamento o l’eccessiva e disordinata attenzione nel farmi imparare a memoria versi di Ovidio, di Senesh, di Wu.

Era un eccellente tutore. Studiammo gli antichi e l’ultimo periodo classico, visitammo le rovine di Atene, di Roma, di Londra e di Hannibal, nel Missouri; e mai una volta mi toccarono compiti scritti o esami. Don Balthazar si aspettava che imparassi tutto a memoria di primo acchito e non lo delusi. Convinse mia madre che i trabocchetti dell’“educazione progressista” non si addicevano a una famiglia della Vecchia Terra; perciò non conobbi le acrobatiche scorciatoie mentali della medicina RNA, l’immersione nella sfera dati, l’istruzione con il flashback sistemico, i gruppi d’incontro stilizzati, le “capacità di pensiero a livello superiore” a spese dei fatti, la programmazione pre-istruttiva. In conseguenza di queste privazioni, a sei anni ero in grado di recitare tutta l’Odissea nella traduzione di Fitzgerald, di comporre una sestina prima ancora di sapermi vestire da solo e di pensare in versi-fuga a spirale prima di essermi mai interfacciato con una IA.

La mia educazione scientifica, d’altro canto, era meno convincente. A don Balthazar “l’aspetto meccanico dell’universo” interessava ben poco. Avevo già ventidue anni, quando capii che i computer, gli RMU e le apparecchiature che permettevano la vita sull’asteroide di zio Kowa erano macchine e non chissà quali manifestazioni benevole delle animae intorno a noi. Credevo nelle fate, negli spiriti silvani, nella numerologia, nell’astrologia, nella magia della Vigilia di Mezzestate nel profondo delle primitive foreste della Riserva Nordamericana. Come Keats e Lamb nello studio di Hajdon, don Balthazar e io brindavamo alla “sconfitta della matematica” e piangevamo la distruzione della poesia dell’arcobaleno operata dal prisma di Newton. Questa precoce sfiducia, quest’odio vero e proprio per tutte le cose di natura scientifica, mi tornò molto utile nel resto della vita. Ho imparato che non è difficile rimanere politeista pre-copernicano anche nell’Egemonia postscientifica.

Le mie prime poesie erano orribili. Come molti cattivi poeti, non me ne rendevo conto: nella mia arroganza, ero sicuro che il semplice atto creativo desse valore agli immeritevoli aborti da me generati. Mia madre si mostrò indulgente, anche quando lasciavo in giro per la casa mucchietti di versi zoppicanti. Era benevola nei confronti del suo unico figlio, anche se lui si mostrava intemperante e sconsiderato quanto un lama selvatico. Don Balthazar non espresse mai commenti sulle mie opere… in primo luogo, presumo, perché non gliele mostrai mai. Don Balthazar pensava che il venerabile Daton fosse un impostore, che Salmud Brevy e Robert Frost avrebbero dovuto impiccarsi con le loro stesse budella, che Wordsworth fosse uno sciocco e che tutto, tranne i sonetti di Shakespeare, fosse una profanazione del linguaggio. Non vedevo motivo di scocciarlo con i miei versi, pur sapendo che erano ricchi di genio in boccio.

Pubblicai parte di questo sterco letterario nelle varie riviste stampate in voga nelle diverse arcologie delle Case Europee: i direttori dilettanti di quelle rozze pubblicazioni avevano per mia madre la stessa indulgenza che lei mostrava nei miei confronti. Di tanto in tanto sollecitavo Amalfi o uno dei miei compagni di giochi (meno aristocratici di me e quindi in grado di accedere alla sfera dati o ai trasmettitori astrotel) perché inserissero qualche mia poesia nelle reti dell’Anello o di Marte e quindi delle fiorenti colonie teleporter. Non mi risposero. Immaginai che fossero troppo impegnati.

Credere nella propria identità di poeta o di scrittore prima della prova del fuoco della pubblicazione, è ingenuo e inoffensivo come la fede giovanile nella propria immortalità… e l’inevitabile delusione è altrettanto dolorosa.

Mia madre morì con la Vecchia Terra. Circa metà delle Vecchie Famiglie rimase, durante l’ultimo cataclisma; a quel tempo, ventenne, avevo concepito piani romantici per morire con il mio mondo natale. Mamma decise altrimenti. Non si preoccupava della mia prematura dipartita (come me, era troppo egoista per pensare ad altri, in tempi del genere) e neppure del fatto che la morte del mio DNA avrebbe segnato la fine di una stirpe di aristocratici che risaliva alla Mayflower; no, si preoccupava che la famiglia morisse indebitata. A quanto pare, i nostri ultimi cento anni di stravaganze erano stati finanziati da massicci prestiti concessi dalla Banca dell’Anello e da altri discreti istituti extraplanetari. Ora che i continenti della Terra si schiantavano sotto i colpi della contrazione, che le foreste erano in fiamme, che gli oceani si gonfiavano e si surriscaldavano fino a diventare una brodaglia senza vita, che l’aria stessa si trasformava in qualcosa di troppo caldo e denso da dissodare e troppo sottile da arare, ora le banche esigevano la restituzione del denaro. Io fui collaterale.

Anzi, lo fu il piano di Mamma. Mia madre liquidò tutti i beni disponibili, alcune settimane prima che questa espressione diventasse vera alla lettera; depositò nella Banca dell’Anello in fuga un quarto di milione di marchi in titoli a lungo termine, e mi spedì a fare una gita nel Protettorato Atmosferico Rifkin, su Porta del Paradiso, un pianeta di scarsa importanza intorno a Vega. Già allora quel mondo velenoso era collegato mediante teleporter al sistema solare, ma io non ne approfittai. E neppure m’imbarcai sull’unica spin-nave a motore Hawking che ogni anno standard partiva per Porta del Paradiso. No, Mamma mi mandò ai confini dei mondi coloniali, in una nave a endoautoreattore Fase 3, più lenta della luce, congelato in animazione sospesa, insieme con gli embrioni di bestiame e il succo d’arancia concentrato e i virus alimentatori, per un viaggio che durò centoventinove anni nave, con un debito temporale oggettivo di centosessantasette anni standard!