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Mamma pensava che l’interesse composto dei depositi a lungo termine sarebbe bastato a estinguere i debiti di famiglia e a permettermi, forse, di vivere agiatamente per qualche tempo. Per la prima e ultima volta della sua vita, Mamma sbagliava.

Note per un bozzetto di Porta del Paradiso:

Vicoli di fango che risalgono dai dock della posta di conversione, simili a un disegno di piaghe sulla schiena d’un lebbroso. Nubi marrone sulfureo che pendono come cenci da un cielo di tela marcia. Un intrico di edifici lignei senza forma, deteriorati prima del completamento, con finestre prive di vetri che fissano cieche la bocca spalancata dei vicini. Indigeni che si riproducono come… come esseri umani, immagino: storpi, senza occhi, coi polmoni bruciati dall’aria marcia, che accompagnano una decina di rampolli con la pelle già ruvida a cinque anni standard, con gli occhi sempre lacrimosi per l’acredine di un’atmosfera che li ucciderà prima della quarantina, i sorrisi cariati, i capelli bisunti pieni di pidocchi e di vesciche gonfie di sangue per gli acari-dracula. Genitori orgogliosi, raggianti. Venti milioni di questi babbei senza futuro, ammassati in bassifondi che straripano da un’isola più piccola del prato ovest della mia tenuta su Vecchia Terra, che lottano per respirare l’unica aria respirabile in un mondo dove la norma è inalare e morire, che si affollano sempre più vicino al centro delle sessanta miglia d’atmosfera accettabile, fornite dalla Stazione Generatrice prima di guastarsi.

Porta del Paradiso: la mia nuova casa.

Mamma non ha calcolato la possibilità che tutti i depositi della Vecchia Terra venissero congelati… e poi assegnati all’economia in via di sviluppo della Rete dei Mondi. E neppure ha ricordato la vera ragione per cui la gente attendeva il motore Hawking, per andare vedere il braccio a spirale della galassia: nel crio-sonno a lunga durata, rispetto a qualche settimana o a qualche mese in crio-fuga, c’era una probabilità su sei di riportare danni terminali al cervello. Fui fortunato. Quando, su Porta del Paradiso, fui disimballato e messo a scavare canali d’acido al di là del perimetro, avevo patito solo un incidente cerebrale… Dal punto di vista fisico, dopo qualche settimana locale ero in grado di lavorare nei pozzi di fango. Dal punto di vista mentale, invece, lasciavo molto a desiderare.

Il lato sinistro del mio cervello era bloccato, come quando si chiude una sezione danneggiata di spin-nave e i portelli a tenuta stagna lasciano aperti al vuoto i compartimenti condannati. Ma ragionavo ancora. Il controllo del lato destro del corpo lo ripresi presto. Solo i centri del linguaggio erano danneggiati in modo irreparabile. Il meraviglioso computer organico incuneato nel mio cranio aveva scaricato il suo contenuto di linguaggio, come se fosse stato un programma inefficiente. L’emisfero destro non era del tutto privo di un certo linguaggio… ma questa semisfera affettiva poteva alloggiare solo le unità di comunicazione emotivamente più caricate: il mio vocabolario adesso era limitato a nove parole. (Fatto di per sé eccezionale, appresi in seguito: molte vittime ne conservano solo due o tre.) Per la cronaca, il mio intero vocabolario comprendeva queste parole: chiavata, cacata, pisciata, fica, maledetto, bastardo, fottuto, pipì e pupù.

Una rapida analisi mostra qualche ridondanza. Disponevo di otto nomi che si riferivano a sei cose; cinque degli otto nomi potevano servire anche come verbi. Conservai un solo nome indiscutibile e un unico aggettivo che poteva anche essere usato come verbo o come imprecazione. Il mio universo verbale comprendeva un bisillabo, sei polisillabi e due parole del linguaggio infantile. Il mio agone letterale offriva quattro strade al soggetto dell’escrezione, un riferimento all’anatomia umana, una richiesta di giudizio divino, una comune descrizione o richiesta di coito, un’espressione di dubbio sulla paternità altrui e una variazione coitale a cui peraltro ero estraneo.

Tutto sommato, bastava.

Non dico di ricordare con tenerezza i tre anni nei pozzi di fango e nei melmosi bassifondi di Porta del Paradiso; ma è vero che quegli anni furono formativi almeno quanto i due precedenti decenni su Vecchia Terra, se non di più.

Presto scoprii che fra i miei amici intimi (Vecchia Fogna, il caposquadra pala e badile; Unk, il bullo dei bassifondi al quale pagavo la tangente per avere protezione; Kiti, la pidocchiosa puttana-letto con cui dormivo quando potevo permettermelo) il mio vocabolario limitato mi serviva bene. «Chiavata cacata» grugnivo, gesticolando. «Fottuto fica pipì chiavata.»

«Ah» sogghignava Vecchia Fogna, mostrando l’unico dente. «Vai al negozio della compagnia a procurarti un boccone di alghe, eh?»

«Maledetto pupù» rispondevo, con lo stesso sogghigno.

La vita del poeta non consiste solo nella finita danza verbale dell’espressione, ma nelle quasi infinite composizioni di percezione e di ricordo combinate con la sensibilità di quel che si percepisce e si ricorda. I miei tre anni locali su Porta del Paradiso, quasi 1500 giorni standard, mi permisero di vedere, percepire, sentire… ricordare; come se fossi, alla lettera, rinato. Poco importa che fossi rinato nell’inferno: l’esperienza rielaborata è la materia di tutta la vera poesia e la cruda esperienza era il dono di nascita della mia nuova vita.

Mi adattai senza difficoltà a un mondo nuovo, di un secolo e mezzo posteriore al mio. Nonostante i discorsi d’espansione e lo spirito pionieristico degli ultimi cinque secoli, sappiamo tutti quanto stolto e statico sia diventato l’universo umano. Ci troviamo in un comodo Medioevo della creatività; le istituzioni cambiano poco e con un’evoluzione graduale, anziché con rivoluzioni; la ricerca scientifica striscia di sghembo come un granchio, mentre un tempo procedeva con grandi balzi d’intuizione; le macchine cambiano anche meno: la tecnologia più avanzata sarebbe immediatamente identificabile — e quindi utilizzabile — per i nostri nonni. Quindi, mentre ero in animazione sospesa, l’Egemonia diventò un’entità formale, la Rete dei Mondi fu tessuta in qualcosa di più vicino alla sua forma finale, la Totalità prese il suo posto democratico nell’elenco dei despoti benevoli dell’umanità, il TecnoNucleo si allontanò dal servizio umano e poi offrì il suo aiuto come alleato anziché come schiavo, e gli Ouster si ritrassero nelle tenebre nel ruolo di Nemesi… Ma tutte queste cose strisciavano verso la massa critica anche prima che fossi congelato nella mia bara di ghiaccio fra porci e sorbetti alla frutta; e simili ovvie estensioni di vecchie tendenze richiesero un piccolo sforzo di comprensione. Inoltre, la storia vista dall’interno è sempre una scura confusione digestiva, molto diversa dalla vacca facilmente riconoscibile contemplata da lontano dagli storici.

La mia vita era Porta del Paradiso e le esigenze quotidiane per sopravviverci. Il cielo era un eterno tramonto giallomarrone sospeso come un soffitto pericolante solo qualche metro sopra la mia baracca. La baracca era singolarmente comoda: un tavolo per mangiare, una branda per dormire e chiavare, un buco per pisciare e cacare, una finestra da cui fissare in silenzio. Il mio ambiente rispecchiava il mio vocabolario.