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La prigione è sempre stata un buon posto per gli scrittori, visto che uccide i demoni gemelli della mobilità e dello svago: Porta del Paradiso non faceva eccezione. Il Protettorato Atmosferico possedeva il mio corpo; ma la mente, o quel che ne restava, era mia.

Su Vecchia Terra, per comporre poesie mi servivo di un comlog Sadu-Dekenar pensiero-processore, mentre me ne stavo disteso in una sdraio imbottita o mi libravo nella chiatta EM sopra buie lagune o passeggiavo assorto fra pergole profumate. Ho già descritto gli esecrabili, indisciplinati, zoppicanti, flatulenti prodotti di quei sogni a occhi aperti. Su Porta del Paradiso scoprii quale stimolo intellettuale può essere la fatica fisica; ma non dovrei dire semplicemente fatica fisica: fatica che piega la spina dorsale, dovrei aggiungere, che infiamma i polmoni, che tormenta le viscere, che strappa i legamenti, che rompe le palle. Ma finché il compito è oneroso e ripetitivo, la mente non solo è libera di vagare in climi più ricchi d’immaginazione, ma se ne vola davvero su piani più elevati.

Così, su Porta del Paradiso, mentre sotto l’occhio fisso e rosso di Vega Primo dragavo schiuma dal fondo di canali d’acqua sporca o strisciavo in ginocchio nelle labirintiche pneumo-tubature della stazione, fra stalattiti e stalagmiti batteriche del riciclo-respiratore, diventai un poeta.

Mi mancavano soltanto le parole.

Una volta, durante un’intervista, l’onoratissimo scrittore del Ventesimo secolo William Gass disse: «Le parole sono gli oggetti supremi. Sono gli oggetti della mente».

Ed è vero. Pure e trascendenti come qualsiasi Idea che abbia mai gettato ombra nella scura grotta platonica della nostra percezione. Ma anche trabocchetti di falsità e di errata percezione. Le parole piegano il nostro pensiero in infiniti sentieri d’illusione; e se trascorriamo gran parte della nostra vita mentale in palazzi cerebrali fatti di parole, significa che non possediamo l’obiettività necessaria per scorgere la terribile distorsione della realtà che il linguaggio porta con sé. Esempio: il pittogramma cinese per indicare “onestà” è un simbolo in due parti che rappresenta alla lettera un uomo in piedi accanto alla propria parola. Fin qui, tutto bene. Ma che cosa significa la parola del Tardo Inglese “integrità”? O “madreterra”? O “progresso”? O “democrazia”? O “bellezza”? Ma anche ingannando noi stessi diventiamo dèi.

Un filosofo e matematico di nome Bertrand Russell, vissuto e morto nello stesso secolo di Gass, scrisse una volta: «Il linguaggio serve non solo a esprimere il pensiero, ma a rendere possibili pensieri che non esisterebbero senza di esso». Ecco l’essenza del genio creativo dell’uomo: non gli edifici della civiltà, non le armi che in un istante possono porvi fine, ma le parole che fertilizzano nuovi concetti come spermatozoi all’assalto dell’ovulo. Si potrebbe obiettare che i gemelli siamesi parola/idea sono l’unico contributo che la razza umana può, vuole o dovrebbe dare, all’intricato universo. (Sì, il nostro DNA è unico; ma è unico anche quello della salamandra. Sì, fabbrichiamo manufatti; ma lo stesso fanno specie che vanno dai castori alle formiche-architetto le cui torri merlate sono visibili proprio adesso dall’oblò di prua. Sì, tessiamo cose di stoffa reale dai sogni della matematica; ma la matematica è l’intelaiatura dell’universo. Tracci un cerchio, e ne sbuca pi greco. Entri in un nuovo sistema solare, e le formule di Tycho Brahe sono lì in attesa sotto il nero manto di velluto dello spaziotempo. Ma dove mai l’universo ha nascosto una parola, sotto i suoi strati esteriori di biologia, geometria o roccia inanimata?) Anche le tracce di vita intelligente diversa dalla nostra, fin qui scoperte — i Flosci di Giove II, i Costruttori di Labirinti, gli empatici Seneschai di Hebron, gli Stecchi di Durulis, gli architetti delle Tombe del Tempo, lo Shrike stesso — ci hanno lasciato misteri e oscuri manufatti, ma non linguaggi. Non parole.

Una volta il poeta John Keats scrisse a un suo amico, un certo Bailey: «Non sono sicuro di niente, se non della santità dell’affetto del Cuore e della verità dell’Immaginazione. Quel che l’immaginazione afferra come Bellezza, dev’essere verità… che prima sia esistito o meno».

Il poeta cinese George Wu, morto nell’ultima guerra cino-nipponica, circa tre secoli prima dell’Egira, lo sapeva bene, quando registrò sul suo comlog: «I poeti sono le folli levatrici della realtà. Vedono non ciò che è, né ciò che può essere, ma ciò che deve divenire». In seguito, nell’ultimo dischetto alla sua amata, una settimana prima di morire, Wu disse: «Le parole sono solo proiettili nella bandoliera della verità. E i poeti sono i cecchini».

Capite, in principio era il Verbo. E il Verbo diventò carne nella trama dell’universo umano. E solo il poeta può espandere questo universo, trovare scorciatoie verso nuove realtà, così come il motore Hawking supera le barriere dello spaziotempo einsteiniano.

Essere un poeta, mi resi conto, un poeta vero, significava diventare l’Avatar incarnato dell’umanità; accettare il manto di poeta equivaleva a portare la croce del Figlio dell’Uomo, a sopportare le doglie del parto dell’Anima Madre dell’Umanità.

Essere un poeta vero è diventare Dio.

Su Porta del Paradiso cercai di spiegare ai miei amici questo concetto. «Pisciata, cacata» dissi. «Fottuto bastardo, maledetto cacata maledetto. Fica. Pipì fica. Maledetto!»

Scossero la testa, sorrisero e si allontanarono. Raramente i grandi poeti sono capiti, nel loro tempo.

Le nuvole giallomarrone versarono una pioggia d’acido su di me. Camminai nel fango alto fino alle cosce e ripulii dalle alghe sanguisughe le cloache della città. Vecchia Fogna morì durante il mio secondo anno sul pianeta, mentre lavoravamo tutti al progetto per estendere il Canale Prima Strada fino alle Piane Fangose di Mediafossa. Un incidente. Si stava arrampicando su una duna di fanghiglia per salvare una rosa sulfurea dal fango in arrivo, quando ci fu un fangomoto. Poco dopo questo incidente, Kiki si maritò. Continuò ancora a lavorare part-time come puttana-letto, ma la vidi sempre meno. Morì di parto poco dopo che lo tsunami verde si portò via Città Piana Fangosa. Continuai a scrivere poesie.

Come si possono scrivere belle poesie con un vocabolario di sole nove parole, vi chiederete?

La risposta è che non usavo affatto le parole. La poesia riguarda solo secondariamente le parole. Per prima cosa, riguarda la verità. Mi occupai della Ding an Sich, la sostanza dietro l’ombra, intessendo potenti concetti, similitudini e connessioni, come un ingegnere erigerebbe un grattacielo con lo scheletro in fibrolega, molto prima della comparsa di vetro e plastica e cromalluminio.

E pian piano le parole tornarono. Il cervello si rieduca e si riattrezza in modo sorprendente. Quel che si era perso nell’emisfero sinistro trovò casa altrove o ristabilì la propria supremazia nelle regioni danneggiate, come un pioniere che torna in una piana bruciata resa più fertile dalle fiamme. Mentre prima una parola semplice come “sale” mi avrebbe lasciato a bocca aperta, con la mente a sondare il vuoto come una lingua che tasta il foro d’un dente mancante, ora le parole e le frasi rifluivano lentamente, come i nomi di compagni di gioco dimenticati. Di giorno faticavo nei campi di fanghiglia, ma di notte sedevo al tavolino scheggiato e scrivevo i Canti, alla luce d’un sibilante lume a burro liquefatto. Mark Twain, nel suo modo familiare, espresse questa opinione: «La differenza fra la parola giusta e la parola quasi giusta è la differenza tra il fulmine e la lucciola». Una definizione azzeccata, ma incompleta. Durante quei lunghi mesi in cui su Porta del Paradiso iniziai i Canti scoprii che la differenza fra trovare la parola giusta e accettare la parola quasi giusta era la differenza fra l’essere colpito da un fulmine e assistere semplicemente alla sua caduta.