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I Canti iniziarono e crebbero. Scritti sui fragili fogli di fibra d’alga sanguisuga riciclata prodotti a tonnellate come carta igienica, vergati con i pennarelli a buon mercato in vendita allo spaccio aziendale, i Canti presero forma. Mentre le parole tornavano e scivolavano al loro posto come pezzi sparpagliati d’un puzzle a tre dimensioni, avevo bisogno di una formula poetica. Ritornando agli insegnamenti di don Balthazar, tentai la misurata nobiltà della poesia epica di Milton. Presa confidenza, aggiunsi la romantica sensualità di un Byron maturato dalla celebrazione keatsiana del linguaggio. Mescolai il tutto e insaporii la mistura con uno spruzzo del brillante cinismo di Yeats e un pizzico dell’oscura e pedante arroganza di Pound. Tritai, tagliai a dadini, aggiunsi ingredienti come il controllo del linguaggio immaginoso di Eliot, la sensibilità per l’atmosfera di Dylan Thomas, l’ineluttabilità di Delmore Schwartz, il tocco d’orrore di Steve Tem, la supplica per l’innocenza di Salmud Brevy, l’amore di Daton per lo schema a rima involuta, l’adorazione di Wu per il fisico, la giocosità radicale di Edmond Ki Ferrera.

Alla fine, ovviamente, buttai via l’intruglio e scrissi i Canti in uno stile tutto mio.

Se non fosse stato per Unk, il bullo dei bassifondi, probabilmente sarei ancora su Porta del Paradiso, a scavare canali di giorno e a scrivere Canti di notte.

Era il mio giorno di riposo. Portando con me i Canti (l’unica copia del manoscritto!) stavo andando alla Biblioteca Aziendale nella Sala Comune per fare alcune ricerche, quando Unk e due suoi compari sbucarono da un vicolo e chiesero il pagamento immediato della tangente del mese dopo. Nel Protettorato Atmosferico di Porta del Paradiso non avevamo carte universali; pagavamo i debiti utilizzando certificati dell’Azienda o marchi clandestini. Io non avevo né gli uni né gli altri. Unk chiese di fargli vedere che cos’avevo nella sacca di plastica. Senza riflettere, rifiutai. Fu un errore. Se avessi mostrato a Unk il manoscritto, probabilmente lui avrebbe buttato i fogli nel fango, mi avrebbe minacciato e preso a schiaffi. Invece il mio rifiuto lo imbestialì: lui e i suoi due Neanderthal mi strapparono la sacca, buttarono nel fango il manoscritto e mi picchiarono fino a ridurmi in fin di vita.

Per fortuna il VEM di un direttore del controllo qualità aria del Protettorato stava passando a bassa quota e sua moglie, che viaggiava da sola diretta allo Spaccio aziendale, ordinò al VEM di scendere, mandò il servandroide a recuperare me e quel che restava dei Canti, dopodiché mi accompagnò di persona all’Ospedale aziendale. Di norma, gli elementi delle forze lavoro sotto contratto ricevevano l’assistenza medica nell’ambulatorio bioclinico, ma l’ospedale non osò opporre un rifiuto alla moglie di un direttore. Così fui accettato, ancora privo di conoscenza, e accudito da un medico umano e dalla moglie del direttore, mentre mi riprendevo a poco a poco nella vasca di guarigione.

D’accordo, per cambiare una banale storia lunga in una banale storia breve, ci darò un taglio. Mentre galleggiavo nel liquido nutritivo di rinnovamento, Helenda (così si chiamava la moglie del direttore) lesse il manoscritto. Le piacque. Quello stesso giorno, mentre ero in fase di decantazione nell’ospedale dell’azienda, Helenda si teleportò su Rinascimento e mostrò i miei Canti a sua sorella Felia, che aveva un amico la cui amante conosceva un redattore della CasaEditrice Transline. Quando il giorno dopo mi svegliai, mi avevano aggiustato le costole rotte, rimesso in sesto lo zigomo fratturato e fatto sparire i lividi; avevo cinque denti nuovi, una nuova cornea all’occhio sinistro e un contratto con la Transline.

Il mio libro uscì cinque settimane più tardi. Dopo un’altra settimana, Helenda divorziò dal direttore e mi sposò. Per lei era il settimo matrimonio, per me il primo. Andammo in luna di miele nel Concourse; quando tornammo, un mese dopo, il mio libro aveva venduto più di un miliardo di copie… il primo libro di poesia, in quattro secoli, a entrare nell’elenco dei bestseller. Mi ritrovai plurimiliardario.

Tyrena Wingreen-Feif fu il mio primo editor alla Transline. Fu lei a intitolare il libro Crepuscolo di un mondo (una ricerca mostrò che esisteva un romanzo con lo stesso titolo, ma era stato pubblicato cinquecento anni prima, non era più stato ristampato e il copyright era scaduto). Fu lei a scegliere per la pubblicazione solo le parti dei Canti che trattavano dei nostalgici giorni finali della Vecchia Terra. E fu lei a eliminare le parti che giudicava noiose per il lettore… i brani filosofici, le descrizioni di mia madre, le poesie che rendevano omaggio a poeti precedenti, i versi sperimentali, i brani più personali… tutto, in pratica, tranne la descrizione degli idilliaci giorni finali che, svuotata d’ogni zavorra, risultò stucchevole e sdolcinata. A quattro mesi dalla pubblicazione, Crepuscolo di un mondo aveva venduto due miliardi e mezzo di faxcopie; una versione condensata e digitalizzata era disponibile nella sfera dati See Thing; e mi era arrivata una richiesta d’opzione per un olo-film. Tyrena notò che la scelta di tempo era stata perfetta… all’originale choc traumatico per la morte della Vecchia Terra era seguito un secolo di rimozione, come se la Terra non fosse mai esistita; e poi un periodo di rinnovato interesse, culminato nei culti nostalgici che ora esistevano in ogni pianeta della Rete dei Mondi. Un libro, anche un libro di poesie, che trattava degli ultimi giorni della Vecchia Terra, era apparso proprio nel momento più favorevole.

In quanto a me, i primi mesi di celebrità nell’Egemonia furono più sconvolgenti del precedente passaggio da figlio viziato della Vecchia Terra a schiavo mentalmente menomato su Porta del Paradiso. Durante quei primi mesi, presenziai a incontri per la firma di libri e di faxcopie su più di cento pianeti; fui invitato allo spettacolo “Tutta la Rete Ora!”, con Marmon Hamlit; incontrai il PFE Senister Perót e Drury Fein, Speaker della Totalità, oltre a una ventina di senatori; tenni conferenze alla Società Interplanetaria Femminile della Penna e all’Unione degli Scrittori di Lusus; ricevetti lauree ad honorem dall’Università della Nuova Terra e da Cambridge Due; fui festeggiato, intervistato, rappresentato, commentato (favorevolmente), bioriprodotto (senza permesso), idolatrato, pubblicato a puntate, truffato. Furono tempi gloriosi.

Note per un bozzetto della vita nell’Egemonia:

La mia casa ha trentotto stanze su trentasei mondi. Niente porte: gli ingressi sono archi di teleporter, alcuni protetti da tendaggi di riservatezza, ma per la maggior parte aperti alla vista e all’entrata. Ogni stanza ha finestre dappertutto e almeno due pareti con un portale. Dalla maestosa sala da pranzo che dà su Vettore Rinascimento, vedo il cielo di bronzo e le torri color verderame di Castello Enable nella vallata ai piedi del mio picco vulcanico; se giro la testa, al di là del teleporter e dell’ampio tappeto bianco nel soggiorno elegante, vedo il mare Edgar Allan frangersi contro le guglie di capo Prospero su Nevermore. La biblioteca si apre sui ghiacciai e i cieli verdi di Nordholm, mentre una camminata di dieci passi mi permette di scendere una breve scalinata fino alla torre studio, una comoda stanza aperta circondata di vetro polarizzato che offre un panorama a 360 gradi dei picchi più alti di Kushpat Karakorum, una catena montuosa a duemila chilometri dal più vicino insediamento nelle marche orientali della repubblica Jamnu, su Deneb Drei.