Martin Sileno rise e chiuse gli occhi. Disse:
— Sono versi di Lenista, vero? — disse padre Hoyt. — In seminario ho studiato l’opera di questa poetessa.
— Quasi centro — rispose Sileno. Aprì gli occhi e si versò altro vino. — Sono di Yeats. Quella checca visse cinquecento anni prima che Lenista ciucciasse le tette metalliche di sua madre.
— Senta — disse Lamia — che vantaggio avremmo a raccontarci la nostra storia? Quando incontreremo lo Shrike, diremo a lui quel che vogliamo: uno sarà accontentato, gli altri moriranno. Giusto?
— Secondo la leggenda, sì — disse Weintraub.
— Lo Shrike non è una leggenda — intervenne Kassad. — E neppure il suo albero d’acciaio lo è.
— Allora perché annoiarci l’un l’altro con la nostra storia? — replicò Brawne Lamia, infilzando sulla forchetta l’ultimo pezzetto di dolce al cioccolato.
Weintraub sfiorò con gentilezza la nuca della piccina addormentata. — Viviamo in tempi bizzarri — disse. — Poiché siamo parte di quel decimo d’un decimo dell’un percento dei cittadini dell’Egemonia che viaggia fra le stelle anziché nella Rete, rappresentiamo epoche singolari del nostro recente passato. Io, per esempio, ho sessantotto anni standard, ma a causa del debito temporale dovuto ai miei viaggi forse ho vissuto più di un secolo di storia dell’Egemonia, in questi miei “tre ventine e otto” anni.
— E allora? — replicò la donna accanto a lui.
Weintraub aprì la mano in un gesto che includeva tutti quelli seduti al tavolo. — Noi rappresentiamo isole di tempo, oltre che diversi oceani di prospettiva. 0 forse, per esprimere meglio il concetto, può darsi che ciascuno di noi abbia una tessera del puzzle che, da quando per la prima volta l’umanità è scesa su Hyperion, nessuno è riuscito a risolvere. — Weintraub si grattò il naso. — È un mistero — aggiunse. — E, a dire il vero, i misteri mi appassionano, anche se questa dovesse essere l’ultima settimana in cui potrò apprezzarli. Mi accontenterei volentieri anche di un semplice barlume di comprensione ma, in mancanza di questo, mi basterà cercare di ricomporre il puzzle.
— Sono d’accordo — disse Het Masteen con un tono privo d’emozione. — Non mi era venuto in mente, ma capisco che è saggio raccontarci la nostra storia prima di affrontare lo Shrike.
— Che cosa ci impedirà di mentire? — obiettò Brawne Lamia.
— Niente — sogghignò Martin Sileno. — È il bello del gioco.
— La proposta andrebbe messa ai voti — disse il Console. Pensava all’insinuazione di Meina Gladstone, secondo cui uno del gruppo era un agente degli Ouster. Ascoltare la storia di ciascuno era forse un sistema per scoprire la spia? Il Console sorrise, al pensiero di un agente così stupido.
— Chi ha stabilito che siamo una piccola, felice democrazia? — chiese seccamente il colonnello Kassad.
— Meglio esserlo — disse il Console. — Per raggiungere la meta individuale, il gruppo deve arrivare tutto insieme nella zona dello Shrike. È necessario un sistema, per prendere le decisioni.
— Potremmo nominare un capo — suggerì Kassad.
— Ci piscio sopra — annunciò vivacemente il poeta. Gli altri scossero la testa.
— D’accordo — disse il Console. — Votiamo. La prima decisione si riferisce al suggerimento avanzato dal signor Weintraub: raccontare la storia del nostro coinvolgimento con Hyperion.
— O tutto, o niente — intervenne Het Masteen. — O raccontiamo tutti la nostra storia, o non la racconta nessuno. Ci atterremo al volere della maggioranza.
— D’accordo — convenne il Console. All’improvviso era curioso di ascoltare la storia degli altri, benché fosse sicuro che non avrebbe mai raccontato la sua. — Chi è favorevole?
— Io — rispose Sol Weintraub.
— Io — rispose Het Masteen.
— Senz’altro — disse Martin Sileno. — Non mi perderei questa piccola comica nemmeno per un mese di bagni d’orgasmo su Shote.
— Voto sì anch’io — disse il Console, e ne fu sorpreso. — Chi è contrario?
— Io — disse padre Hoyt, senza molta energia.
— A me sembra una stupidaggine — dichiarò Brawne Lamia.
Il Console si rivolse a Kassad. — Colonnello?
Fedmahn Kassad scrollò le spalle.
— Quattro voti a favore, due contro, un’astensione — ricapitolò il Console. — I sì vincono. Chi vuole iniziare?
Intorno al tavolo ci fu silenzio. Alla fine Martin Sileno alzò lo sguardo dal blocchetto di carta su cui aveva scritto qualcosa e divise il foglio in striscioline sottili. — Ho scritto i numeri dall’uno al sette — annunciò. — Tiriamo a sorte e procediamo nell’ordine?
— Mi sembra infantile — disse Lamia.
— Io sono un tipo infantile — replicò Sileno con un sorriso da satiro. Fece un cenno al Console. — Ambasciatore, posso prendere in prestito quel cuscino dorato che porta per cappello?
Il Console gli passò il tricorno, nel quale finirono le striscioline opportunamente piegate; poi il cappello fu fatto girare. Il primo a pescare fu Sol Weintraub, l’ultimo Martin Sileno.
Il Console aprì il proprio biglietto, accertandosi che nessun altro vedesse. Sentì la tensione diminuire, come aria che sibilasse da un pallone troppo gonfio. Era possibile, rifletté, che gli eventi gli impedissero di raccontare la sua storia. O che la guerra rendesse accademica l’intera questione. O che il gruppo perdesse interesse al gioco. O che il re morisse. O che il cavallo morisse. O che lui insegnasse a parlare al cavallo.
“Basta whisky” si disse.
— Chi è il primo? — chiese Martin Sileno.
Nel breve silenzio che seguì, il Console udì lo stormire delle foglie sotto una brezza che nessuno sentiva.
— Sono io — disse padre Hoyt. L’espressione del prete mostrava la stessa accettazione del dolore, appena celata, che il Console aveva già visto sul viso di amici vittime di malattie incurabili. Hoyt mostrò il biglietto sul quale era tracciato un grosso 1.
— Benissimo — disse Sileno. — Cominci pure.
— Ora? — obiettò il prete.
— E perché no? — replicò il poeta. L’unico segno che Sileno si fosse già scolato almeno due bottiglie di vino era un leggero arrossamento delle guance rubizze e l’aria un po’ più demoniaca che gli conferivano le sopracciglia inarcate. — Mancano alcune ore all’atterraggio — continuò. — E per quanto mi riguarda intendo farmi passare il gelo della crio-fuga con una dormita, ma solo dopo che saremo al sicuro fra i semplici indigeni.
— Il nostro amico ha ragione — disse piano Sol Weintraub. — Se dobbiamo raccontare la nostra storia, l’ora più adatta mi sembra proprio quella dopo cena.
Con un sospiro, padre Hoyt si alzò. — Solo un minuto — disse, e lasciò la piattaforma da pranzo.
Dopo qualche minuto, Brawne Lamia disse: — Credete che gli sia mancato il coraggio?
— No — rispose Lenar Hoyt sbucando dal buio in cima alla scala mobile di legno che serviva da scalinata principale. — Avevo bisogno di questi. — Lasciò cadere sul tavolo due libriccini macchiati e si sedette.
— Non è corretto leggere storie dal libro di preghiera — protestò Martin Sileno. — Ogni storia dev’essere personale, Mago!