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«Ecco Hyperion» mormorò il mio mecenate. Come al solito, quando era completamente assorto, re Billy dimenticò di balbettare. L’ologramma mostrò una serie di panorami: città fluviali, città portuali, picchi di montagne, una città sopra una collina piena di monumenti che facevano il paio con gli edifici bizzarri della vicina vallata.

«Le Tombe del Tempo?» dissi.

«Esatto. Il mistero più grande dell’universo conosciuto.»

A quell’iperbole aggrottai le sopracciglia. «Sono maledettamente vuote» dissi. «Vuote, fin dalla loro scoperta.»

«Sono la fonte d’un bizzarro campo di forza anti-entropico che esiste tuttora» disse re Billy. «Uno dei pochi fenomeni, a parte le anomalie, che osano interferire con il tempo stesso.»

«Non è gran cosa» dissi. «Sarà stato come dare del minio sul metallo. Le Tombe furono fatte per durare, ma sono vuote. E poi, da quando in qua ci facciamo venire il mal di pancia per la tecnologia?»

«Non per la tecnologia» sospirò re Billy, con la faccia che gli si disfaceva in rughe più marcate. «Per il mistero. La bizzarria del luogo, indispensabile per alcuni spiriti creativi. Una perfetta mistura d’utopia classica e mistero pagano.»

Scrollai le spalle, per niente impressionato.

Con un gesto, re Billy il Triste spense l’olo. «La sua p-p-poesia è migliorata?»

Incrociai le braccia e lanciai un’occhiata di fuoco a quello zotico nanerottolo. «No.»

«La m-m-musa è tornata?»

Non risposi. Se gli sguardi potessero uccidere, prima di notte avremmo tutti gridato: «Il re è morto, viva il re!»

«B-b-benissimo» disse lui: sapeva anche essere insopportabilmente compiaciuto, oltre che triste. «P-p-prepari i bagagli, ragazzo mio. Andiamo su Hyperion.»

(Dissolvenza)

Cinque navi coloniali di re Billy il Triste, librate come soffioni dorati sopra un cielo celeste. Bianche città sorgono su tre continenti: Keats, Endymion, Port Romance… la stessa Città dei Poeti. Più di ottomila pellegrini d’Arte fuggono la tirannia della mediocrità e cercano un rinnovamento di visione su questo pianeta appena sbozzato.

Nel secolo successivo all’Egira, Asquith e Windsor-in-esilio erano stati un centro per la bioproduzione d’androidi; ora questi pelleblù amici dell’uomo sudavano e dissodavano la terra con la consapevolezza che al termine delle loro fatiche sarebbero stati finalmente liberi. Le città bianche sorsero. Gli indigeni, stanchi di giocare ai nativi, uscirono dai villaggi e dalle foreste per aiutare a ricostruire la colonia secondo una scala più umana. I tecnocrati, i burocrati e gli ecocrati furono scongelati e sguinzagliati sul pianeta senza sospetti; il sogno di re Billy il Triste si avvicinò d’un passo alla realtà.

Quando arrivammo su Hyperion, il generale Horace Glennon-Height era morto e la sua breve ma brutale ribellione era già stata soffocata, ma non si poteva tornare sui propri passi.

Alcuni artisti e artigiani, fra i più rigidi, rifiutarono con sdegno la Città dei Poeti e sbarcarono il lunario, in modo duro ma creativo, a Jacktown o a Port Romance, o addirittura nelle zone di frontiera che si espandevano più oltre; ma io rimasi.

In quei primi anni su Hyperion non trovai la musa. Per molti, l’allungamento delle distanze dovuto ai limitati mezzi di trasporto (i VEM non erano affidabili, gli skimmer scarseggiavano) e la contrazione della consapevolezza artificiale dovuta all’assenza di sfera dati, alla mancanza di accesso alla Totalità e al fatto che ci fosse un solo trasmettitore astrotel, portarono al rinnovamento delle energie creative e a una nuova realizzazione di cosa significasse essere un uomo e un artista.

Almeno, così si diceva.

La musa non comparve. I miei versi continuarono a essere tecnicamente validi e morti come il gatto di Huck Finn.

Decisi di suicidarmi.

Ma prima trascorsi un po’ di tempo, nove anni almeno, a organizzare un servizio sociale, che dotò il nuovo Hyperion dell’unica cosa che gli mancava: la decadenza.

Da un bioscultore opportunamente chiamato Graumann Hacket, mi feci fare i fianchi irsuti, gli zoccoli e le zampe caprine di un satiro. Mi lasciai crescere la barba e mi allungai le orecchie. Graumann eseguì interessanti modificazioni al mio apparato sessuale. La voce si sparse. Ragazze contadine, indigene, mogli di progettisti e di pionieri della nostra città conservatrice… tutte attesero una visita dell’unico satiro stabile di Hyperion, o se ne procurarono una. Imparai che cosa significano realmente “priapeo” e “satinasi”. Oltre a una serie infinita di certami sessuali, lasciai che le mie sbronze diventassero proverbiali e che il mio vocabolario tornasse a essere qualcosa di molto vicino ai vecchi giorni post-incidente.

Era una fottuta meraviglia. Era un fottuto inferno.

E poi, la notte in cui m’ero appartato per farmi saltare le cervella, comparve Grendel.

Note per un bozzetto del nostro mostro in visita:

I nostri peggiori incubi hanno preso vita. Qualcosa di malvagio sfugge la luce. Ombre di Morbius e del Krell. Tieni alto il fuoco, Mamma: Grendel viene stanotte.

Sulle prime pensiamo che chi manca sia semplicemente assente; non ci sono sentinelle sulle mura della nostra città, non ci sono neppure mura, né guerrieri alla porta della nostra corte. Poi un marito riferisce che la moglie è scomparsa tra il pasto della sera e la messa a letto dei due figli. Quindi Hoban Kristus, l’implosionista astratto, non si fa vedere alla recita di metà settimana nell’Anfiteatro dei Poeti: perde la battuta d’entrata per la prima volta negli ottantadue anni in cui calca le scene. Ci si preoccupa. Re Billy il Triste torna dalle sue fatiche come soprastante per la ristrutturazione di Jacktown e promette che la sicurezza sarà più stretta. Si tende intorno alla città una rete di sensori. Agenti del servizio di sicurezza navale fanno un sopralluogo nelle Tombe del Tempo e riferiscono che sono sempre vuote. Mecc sono inviati nell’ingresso del labirinto alla base della Tomba di Giada e, dopo un sondaggio di seimila chilometri, riferiscono che non c’è niente. Skimmer, sia automatici sia provvisti d’equipaggio, sorvolano la zona fra la città e la Briglia: non scoprono nulla di più grande della traccia di calore di un’anguilla delle rocce. Per una settimana locale non ci sono altre sparizioni.

Poi iniziano le morti.

Lo scultore Pete Garcia viene trovato nel suo studio… e in camera da letto… e in cortile. Truin Hines, il direttore del servizio di sicurezza navale, è tanto sciocco da dichiarare a un robocronista: «Sembra quasi che sia stato fatto a pezzi da un animale feroce. Ma per quanto ne so, non esistono belve che possano ridurre un uomo in quello stato».

Segretamente siamo tutti eccitati. Il dialogo è pessimo, certo: sembra uscito diritto da uno dei milioni di film e di olodrammi con cui ci piace spaventarci; ma ora facciamo parte dello spettacolo.

I sospetti si rivolgono all’ovvio: fra noi c’è uno psicopatico in libertà: probabilmente per uccidere si serve di un’arma tipo pulso-lama o frustalaser. Stavolta lui (o lei) non ha avuto il tempo di liberarsi del cadavere. Povero Pete.

Il direttore della sicurezza Hines è licenziato; l’amministratore della città, Pruett, riceve da Sua Maestà il permesso di assumere, addestrare e armare una forza di polizia di circa venti agenti. Si parla di sottoporre alla macchina della verità l’intera popolazione della Città dei Poeti, seimila anime. I caffè lungo i marciapiedi ronzano di conversazioni sui diritti civili (tecnicamente, siamo al di fuori dell’Egemonia: abbiamo diritti?) e si fanno piani stravaganti per catturare l’assassino.

Poi comincia la strage.