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Si sentì un botto sordo quando il corpo del giovane colpì, fuori quadro, la parete. Sira aspettava, distesa, con vulnerabilità tragicomica: gambe divaricate, braccia larghe, seni appiattiti, cosce ceree. Trovò il tempo di rialzare la testa, prima gettata all’indietro nell’estasi, e di scuoterla, mentre la collera sostituiva l’espressione bizzarramente simile dell’orgasmo imminente. Aprì la bocca per urlare.

Non emise nessun suono. Si sentì un rumore simile a quello prodotto da un’anguria affettata, di lame conficcate nella carne, di uncini liberati con uno strattone dall’intralcio di tendini e ossa. La testa di Sira ricadde con la bocca spalancata in modo impossibile, e il suo corpo esplose dallo sterno in giù. La carne si separò come se un’ascia invisibile stesse riducendo Sira Rob a legna da ardere. Bisturi non visti conclusero il lavoro di aprirla; apparvero delle incisioni laterali come se fosse in atto l’operazione prediletta di un chirurgo folle: una brutale autopsia eseguita su una persona vivente. Un tempo vivente, per meglio dire: infatti, quando il sangue smise di schizzare e il corpo di contrarsi negli spasmi, le membra di Sira si rilassarono nella morte e le gambe si divaricarono di nuovo in un’eco dell’oscena esibizione delle interiora più in alto. E allora, per un brevissimo istante, accanto al letto ci fu un lampo confuso di rosso e di cromo.

«Blocca, espandi e ingrandisci» ordinò re Billy al computer domestico.

Il lampo confuso si rivelò per una testa uscita dall’incubo d’un vizioso dedito alla scossa: una faccia in parte acciaio, in parte cromo, in parte teschio; denti simili all’incrocio fra un lupo meccanico e una vanga a vapore; occhi come laser color rubino che ardessero attraverso gemme piene di sangue; fronte con una punta ricurva che spuntava per trenta centimetri dal cranio color mercurio; collo circondato da spine analoghe.

«Lo Shrike?» domandai.

Re Billy annuì: un movimento appena accennato di mento e mascella.

«Cos’è accaduto al ragazzo?»

«Non c’era traccia di lui, quando hanno trovato il cadavere di Sira» rispose il re. «Nessuno sapeva che fosse scomparso finché non è stato scoperto questo dischetto. È stato identificato come un giovane specialista ricreativo di Endymion.»

«Avete trovato solo l’ologramma?»

«Ieri» disse re Billy, annuendo. «Gli agenti della sicurezza hanno trovato l’olocamera sul soffitto. Meno d’un millimetro di diametro. Sira aveva una biblioteca di dischetti del genere. L’olocamera serviva chiaramente solo a registrare… ah…»

«Le follie di letto» dissi.

«Appunto.»

Mi accostai all’immagine sospesa della creatura. Passai la mano attraverso fronte, spina e mascella. Il computer aveva calcolato le dimensioni e l’aveva rappresentata nel modo giusto. A giudicare dalla testa della creatura, il nostro Grendel locale era alto più di tre metri. «Shrike» mormorai, più come saluto che identificazione.

«Che mi dice di lui, Martin?»

«Perché lo chiede a me?» replicai, brusco. «Sono un poeta, non uno storico dei miti.»

«Si è collegato al computer della nave coloniale e ha fatto una richiesta d’indagine sulla natura e le origini dello Shrike.»

Inarcai un sopracciglio. In teoria l’accesso al computer era riservato e anonimo quanto il collegamento alle sfere dati nell’Egemonia. «E allora?» replicai. «Centinaia di persone avranno indagato sulla leggenda dello Shrike, dall’inizio degli omicidi. Forse migliaia. È la nostra unica e merdosa leggenda di un mostro!»

Re Billy mosse su e giù rughe e pieghe. «Sì» disse. «Ma ha frugato nei file con tre mesi d’anticipo sulla prima sparizione.»

Sospirai e mi lasciai cadere sui cuscini della piazzuola. «E va bene» dissi. «Ho fatto l’indagine. E allora? Volevo usare quella stronzissima leggenda nel mio stronzissimo poema in corso di composizione; per questo ho fatto delle ricerche. Mi arresti.»

«Cos’ha scoperto?»

Adesso ero davvero infuriato. Pestai sul morbido tappeto gli zoccoli da satiro. «Solo la roba che c’è in quello stronzissimo file» sbottai. «Che cristo vuole da me, Billy?»

Il re si strofinò la fronte; trasalì, quando senza volerlo si cacciò il mignolo nell’occhio. «Non so» disse. «Gli uomini della sicurezza volevano portarla sulla nave e interfacciarla per l’interrogatorio. Io invece ho preferito parlare con lei.»

Battei le palpebre, colpito allo stomaco da una bizzarra sensazione di gravità zero. L’interrogatorio computerizzato significava scambi corticali e prese nel cranio. La maggior parte delle persone interrogate con questo sistema guariva. La maggior parte.

«Può dirmi quale aspetto della leggenda dello Shrike intendeva usare nel suo poema?» domandò piano re Billy.

«Certo» risposi. «Secondo il vangelo del culto iniziato dagli indigeni, lo Shrike è il Signore della Sofferenza e l’Angelo della Redenzione Finale, venuto da un luogo al di là del tempo ad annunciare la fine della razza umana. Mi piaceva l’idea.»

«La fine della razza umana» ripeté re Billy.

«Già. L’arcangelo Michele, Moroni, Satana, l’Entropia Mascherata e il mostro di Frankenstein, riuniti in un’unica confezione. Lo Shrike si aggira nelle vicinanze delle Tombe del Tempo e aspetta di uscirne e di scatenare la rovina, quando verrà il momento che l’umanità si unisca al dodo, al gorilla e al capodoglio, nell’Hit Parade degli animali estinti.»

«Il mostro di Frankenstein» meditò quell’ometto tozzo e grasso col manto spiegazzato. «Perché lui?»

Tirai un sospiro. «Perché i suoi fedeli credono che l’umanità, chissà come, abbia creato lo Shrike» risposi, pur sapendo che re Billy era informato quanto me, se non di più.

«Sa come ucciderlo?» domandò lui.

«Non c’è modo, che io sappia. In teoria è immortale, al di fuori del tempo.»

«Un dio?»

Esitai. «Non proprio» dissi infine. «Uno dei peggiori incubi dell’universo venuto in vita. Una sorta di Sinistra Mietitrice, ma con il pallino d’infilzare nelle spine d’un albero gigantesco le anime… mentre sono ancora nel corpo.»

Re Billy annuì.

«Senta» dissi. «Se insiste per spaccare in quattro il capello sulle teologie dei mondi periferici, perché non vola a Jacktown e si rivolge ai preti del culto?»

«Sì» disse il re col mento appoggiato al pugno tozzo, chiaramente distratto. «Si trovano già sulla nave coloniale, sotto interrogatorio. C’è grande perplessità.»

Mi alzai per andarmene, ma non ero sicuro che me l’avrebbe permesso.

«Martin?»

«Eh?»

«Prima di andare via, non le viene in mente nient’altro che possa aiutarci a capire?»

Mi fermai sulla soglia, con il cuore che batteva all’impazzata. «Sì» risposi, con voce solo apparentemente ferma. «Posso dirle chi è in realtà lo Shrike.»

«Oh?»

«È la mia musa» dissi. Mi girai e tornai in camera a scrivere.

Ovviamente avevo evocato io lo Shrike. Lo sapevo. L’avevo evocato iniziando il poema epico su di lui. In principio era il Verbo.

Cambiai il titolo al poema: I canti di Hyperion. Non trattavano del pianeta, ma della fine dei sedicenti Titani chiamati uomini. Trattava dell’irriflessiva hubris di una razza che osava assassinare il mondo natio per semplice menefreghismo e che poi portava fra le stelle questa pericolosa arroganza, solo per incorrere nell’ira di un dio che l’umanità aveva aiutato a generare. Hyperion era il primo lavoro serio da me fatto in molti anni e il migliore che mai potessi fare. Quel che iniziava come un omaggio tra il serio e il faceto al fantasma di John Keats, diventò la mia ultima ragione d’esistere, un epico tour de force in un’epoca di farsa mediocre. I canti di Hyperion furono scritti con un’abilità che non avrei mai potuto raggiungere, con una padronanza che non avrei mai potuto conseguire; e furono cantati con una voce che non era la mia. La fine dell’umanità fu il mio soggetto. Lo Shrike fu la mia musa.