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Morirono ancora una ventina di persone, prima che re Billy facesse evacuare la Città dei Poeti. Alcuni profughi si trasferirono a Endymion o a Keats o in una delle altre nuove città; ma la maggior parte preferì riprendere le navi coloniali e tornare nella Rete. Il sogno di re Billy, l’utopia creativa, morì, anche se il re stesso si trattenne nel tetro palazzo di Keats. La guida della colonia passò al Consiglio Autonomo, che fece all’Egemonia domanda d’ammissione e subito creò una Forza di Autodifesa. La FAD, composta principalmente dagli stessi indigeni che si bastonavano l’un l’altro un decennio prima, ma comandata ora da sedicenti funzionari della nostra nuova colonia, riuscì solo a turbare la pace notturna con le sue pattuglie di skimmer automatici e a rovinare la bellezza dell’invadente deserto con i suoi mecc di sorveglianza mobile.

Sorprendentemente, non fui l’unico a rimanere: almeno duecento persone si fermarono, anche se molti di noi evitavano le relazioni sociali e si limitavano a scambiarsi un sorriso educato quando s’incontravano lungo la Passeggiata dei Poeti, o pranzavano ai tavolini dell’echeggiante e vuota cupola ristorante.

Omicidi e sparizioni continuarono, in media uno ogni quindici giorni locali: in genere non li scoprivamo noi, ma il comandante regionale della FAD, che ogni mese faceva il censimento dei cittadini.

Di quel primo anno mi resta in mente un’insolita immagine di gruppo: la sera in cui ci riunimmo nel parco a guardare la partenza delle navi coloniali. Si era all’apice della stagione meteorica autunnale e i cieli notturni di Hyperion ardevano di scie dorate e di reticoli rossastri di fuoco, quando i motori delle navi si accesero e un piccolo sole avvampò; per un’ora guardammo amici e colleghi artisti rimpicciolire come la scia di una fiamma di fusione. Re Billy il Triste si unì a noi, quella sera; ricordo che mi guardò, prima di rientrare con solennità nella carrozza riccamente ornata e fare ritorno alla sicurezza di Keats.

Nella decina d’anni che seguirono, lasciai la città solo sei volte; una, per cercare uno scultore che mi liberasse del finto aspetto da satiro; le altre, per comprare cibi e provviste. Intanto il Tempio Shrike aveva ripreso i pellegrinaggi e nei miei giri usavo in senso contrario le loro complesse vie verso la morte… il tratto a piedi fino a Castel Crono, la funivia per superare la Briglia, i carri a vela, la chiatta di Caronte per scendere l’Hoolie. Al ritorno, guardavo i pellegrini e mi domandavo chi sarebbe sopravvissuto.

Pochi visitavano la Città dei Poeti. Le nostre torri incompiute cominciarono a sembrare rovine diroccate. Le gallerie, con le splendide cupole di metalvetro e i portici coperti, erano rivestite di fitti rampicanti; fra le lastre di pietra spuntavano piromigna e sfregerba. La FAD accresceva il caos, piazzando mine e trappole esplosive per uccidere lo Shrike con l’unico risultato di devastare parti della città un tempo molto belle. L’irrigazione s’interruppe. L’acquedotto crollò. Il deserto invase la città. Nel palazzo abbandonato di re Billy, passavo di stanza in stanza lavorando al poema e aspettando la mia musa.

Quando ci si pensa, il rapporto causa/effetto comincia a sembrare un folle ciclo d’iterazione logico dell’artista-dati Carolus, o magari una stampa di Escher: lo Shrike era venuto all’esistenza a causa dei poteri incantatori del mio poema, ma il poema non sarebbe esistito senza la presenza/minaccia dello Shrike come musa. Forse in quei giorni ero un po’ matto.

In una decina d’anni la morte improvvisa passò al setaccio quella città di dilettanti, finché non restammo che lo Shrike e io. Il passaggio annuale del Pellegrinaggio Shrike era un fastidio di secondaria importanza, una carovana che attraversava in lontananza il deserto diretta alle Tombe del Tempo. A volte qualche figura tornava, fuggiva fra le sabbie vermiglie per rifugiarsi a Castel Crono, venti chilometri a sudovest. Più spesso, dalle Tombe non emergeva nessuno.

Dalle ombre della città, stavo a guardare. Barba e capelli mi erano cresciuti al punto da coprire in parte gli stracci che indossavo. Uscivo soprattutto di notte, mi muovevo come un’ombra furtiva fra le rovine, a volte osservavo la mia torre palatina illuminata, come David Hume quando scrutava le sue stesse finestre e solennemente stabiliva di non essere in casa. Non trasferii dalla cupola da pranzo alle mie stanze il sintetizzatore di cibo: preferivo consumare i pasti nel silenzio pieno d’echi sotto quel duomo tutto crepe, come uno sciocco Eloi che si lasci ingrassare per l’inevitabile Morlock.

Non vidi mai lo Shrike. Molte notti, sul fare dell’alba, mi svegliavo per un rumore improvviso… un grattare di metallo sulla pietra, un fruscio di sabbia sotto i piedi di qualcuno. Ma, pur essendo sicuro di essere osservato, non vidi mai chi mi osservava.

Di tanto in tanto facevo una breve gita alle Tombe, soprattutto di notte, evitando l’attrazione debole e sconcertante delle maree temporali anti-entropiche, mentre mi muovevo fra ombre complicate sotto le ali della Sfinge o fissavo le stelle da dentro le pareti di smeraldo della Tomba di Giada. Di ritorno da uno di questi pellegrinaggi notturni, trovai nel mio studio un intruso.

«Impressionante, M-m-martin» disse re Billy, battendo il dito su uno dei fasci di fogli scritti a mano sparsi per la stanza. Seduto al lungo tavolo, nella poltrona per lui troppo grande, il monarca fallito sembrava vecchio, più fuso che mai. Era chiaro che leggeva da qualche ora. «P-p-pensa davvero che l’umanità m-m-meriti una fine del genere?» chiese piano. Era da una decina d’anni che non lo sentivo più balbettare.

Mi scostai dalla porta, ma non risposi. Per più di vent’anni standard, Billy era stato un amico e un mecenate, ma in quel momento l’avrei ucciso. Il pensiero che qualcuno leggesse Hyperion senza il mio permesso mi riempiva di rabbia.

«Mette la d-d-data, ai Canti?» disse re Billy, sfogliando il fascicolo di pagine completate più di recente.

«Com’è arrivato?» replicai, brusco. Non era una domanda sciocca. Negli ultimi anni, skimmer, navette ed elicotteri non avevano avuto molta fortuna, nel sorvolare la regione delle Tombe. Le macchine arrivavano sans passeggeri. La cosa aveva fatto meraviglie, nell’alimentare il mito dello Shrike.

L’ometto col manto spiegazzato scrollò le spalle. In teoria il suo vestito doveva essere brillante e regale, ma riusciva solo a farlo sembrare un Arlecchino sovrappeso. «Ho seguito l’ultima infornata di pellegrini» disse. «E poi da Castel Crono sono venuto a farle visita. Ho notato che in parecchi mesi non ha scritto molto, M-m-martin. Può spiegarlo?»

In silenzio gli lanciai un’occhiata feroce, mentre mi avvicinavo a lui camminando di lato.

«Forse posso spiegarlo io» continuò re Billy. Guardò l’ultima pagina dei Canti di Hyperion come se contenesse la risposta a un indovinello che da tempo lo rendeva perplesso. «Le ultime stanze sono state scritte nella stessa settimana dello scorso anno in cui J.T. Telio scomparve.»

«E allora?» Ero arrivato all’estremità del tavolo. Con finta noncuranza tirai via una piccola pila di pagine manoscritte mettendole fuori portata di Billy.

«E allora, s-s-secondo i monitor della FAD, quella è la d-d-data della m-m-morte dell’ultimo abitante della Città dei Poeti» disse re Billy. «L’ultimo, M-m-martin, a parte lei.»

Scrollai le spalle e cominciai a girare intorno al tavolo. Dovevo arrivare a Billy senza mettere in mezzo il manoscritto.

«Sa, non l’ha t-t-terminato, Martin» disse lui, con voce profonda, triste. «C’è ancora una possibilità che la razza umana sopravviva alla Caduta.»