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Billy urlò. Confusamente udii le lame sfregare contro le ossa, mentre lui si contorceva nell’abbraccio dello Shrike. «Distruggilo!» gridò Billy. «Martin… oh, mio Dio!»

Allora mi girai, avanzai in fretta di cinque passi, lanciai il secchio mezzo pieno di cherosene. Vapori mi offuscarono la vista già confusa. Billy e l’impossibile creatura che lo teneva stretto a sé furono inzuppati come due pagliacci di una farsa in 3-D. Billy batté le palpebre e sputacchiò, il muso levigato dello Shrike rifletté il ciclo illuminato di meteoriti; poi le braci morenti delle pagine bruciate nelle mani di Billy ancora strette a pugno diedero fuoco al cherosene.

Alzai le mani a proteggermi il viso… troppo tardi: barba e sopracciglia si strinarono e mandarono fumo… e barcollai all’indietro fino a incontrare il bordo della fontana.

Per un secondo il rogo fu una perfetta scultura di fuoco, una Pietà livida e giallastra, con una Madonna a quattro braccia che reggeva un Cristo fiammeggiante. Poi la figura ardente si contorse e s’inarcò, prigioniera di spine d’acciaio e di venti e più artigli affilati, e si alzò un grido che ancora oggi non posso credere che provenisse dalla metà umana di quell’amplesso di morte. Il grido mi fece crollare in ginocchio, echeggiò contro ogni superficie solida della città, spinse i colombi a volteggiare in preda al panico. E continuò per minuti interi, dopo che la visione infuocata cessò semplicemente d’esistere, senza lasciarsi dietro né ceneri né immagine retinica. Passarono ancora un paio di minuti, prima che mi rendessi conto che ora quel grido era il mio.

La caduta di tensione è, ovviamente, nell’ordine contorto e naturale delle cose. Ben di rado la vita reale propone epiloghi decenti.

Impiegai parecchi mesi, forse un anno, a ricopiare le pagine rovinate dal cherosene e a riscrivere i Canti bruciati. Non sarà una sorpresa, apprendere che non terminai il poema. Non fu per mia scelta. La mia musa era fuggita.

La Città dei Poeti decadde in pace. Vi rimasi ancora un paio d’anni… forse cinque, non so. A quel tempo ero completamente pazzo. Ancora oggi le testimonianze dei primi pellegrini Shrike parlano della figura magrissima, tutta capelli, stracci e occhi sporgenti, che li svegliava dal loro sonno di Getsemani urlando oscenità e agitando il pugno verso le silenziose Tombe del Tempo, sfidando il codardo rifugiato nel loro interno.

Alla fine la follia si esaurì… anche se le sue braci brilleranno sempre. Percorsi a piedi i millecinquecento chilometri fino alla civiltà, con lo zaino appesantito solo dai miei fogli manoscritti, vivendo di anguille delle rocce, di neve e, negli ultimi dieci giorni, di niente.

I due secoli e mezzo trascorsi nel frattempo meritano di essere raccontati ancor meno di quanto meritino di essere rivissuti. I trattamenti Poulsen mantennero in vita e in attesa lo strumento. Due lunghi e gelidi sonni in illegali crio-viaggi a velocità inferiore a quella della luce; ciascuno della durata di un secolo e passa; ciascuno con il suo pedaggio in cellule cerebrali e ricordi.

Aspettai allora. Aspetto adesso. Il poema dev’essere terminato. E sarà terminato.

In principio era il Verbo.

In fine… al di là dell’onore, della vita, delle cure…

In fine sarà il Verbo.

4

La Benares attraccò a Limito, poco dopo mezzogiorno dell’indomani. Una manta era morta sotto i finimenti, a soli venti chilometri a valle della destinazione e A. Bettik l’aveva staccata. L’altra durò finché non ormeggiarono al molo scolorito, poi si girò pancia all’aria, esausta, emettendo bolle dai fori d’aerazione gemelli. Bettik ordinò di staccare dai finimenti anche quella e spiegò che aveva una debole speranza di sopravvivere solo se poteva galleggiare nella corrente più rapida.

Già da prima del sorgere del sole i sette pellegrini erano svegli e guardavano scorrere il paesaggio. Parlavano poco e nessuno aveva trovato niente da dire a Martin Sileno. A quanto pareva, il poeta non ci aveva badato: bevve vino a colazione e cantò canzonette oscene al sorgere del sole.

Durante la notte il fiume si era allargato e al mattino sembrava una strada grigiazzurra larga chilometri che tagliava le colline a sud del mare d’Erba. Così vicino al mare non c’erano alberi; i marrone, gli oro e i toni d’erica dei cespugli della Criniera si erano gradualmente accesi nei verdi arditi della vegetazione nordica alta due metri. Durante la mattina, a mano a mano che procedevano, le colline si erano appiattite e adesso erano ridotte a basse scarpate erbose ai lati del fiume. Un oscuramento quasi invisibile restava sospeso all’orizzonte, a nord e a est; quei pellegrini che erano stati sui mondi oceanici e lo conoscevano come un effetto del mare in avvicinamento, dovettero ricordare a se stessi che l’unico mare nelle vicinanze era costituito di alcuni miliardi d’acri d’erba.

Limito non era mai stato un avamposto molto grande, e adesso era completamente deserto. I venti edifici che costeggiavano il viottolo pieno di solchi oltre il pontile avevano l’aspetto vuoto di tutte le costruzioni abbandonate; sul lungofiume c’erano segni della fuga degli abitanti, avvenuta settimane prima. Il Riposo del Pellegrino, una locanda vecchia di tre secoli, proprio sotto la cresta dell’altura, era stato bruciato.

A. Bettik li accompagnò in cima alla bassa scarpata.

— Ora cosa farete? — domandò all’androide il colonnello Kassad.

— Secondo le clausole del servizio al Tempio, dopo questo viaggio siamo liberi — rispose Bettik. — Lasceremo qui la Benares per il vostro ritorno e useremo la scialuppa per scendere il fiume. Poi ce ne andremo per la nostra strada.

— Con le evacuazioni generali? — domandò Brawne Lamia.

— No — sorrise Bettik. — Abbiamo scopi e pellegrinaggi nostri, su Hyperion.

Il gruppo raggiunse la cima arrotondata della scarpata. Dietro di loro, la Benares sembrava una piccola cosa legata a un pontile cadente. Più avanti l’Hoolie curvava a ovest e si restringeva verso le insuperabili Cataratte Basse, una decina di chilometri a monte di Limito. A nord e a est si estendeva il mare d’Erba.

— Dio mio — mormorò Brawne Lamia.

Era come se avessero salito l’ultima collina del creato. Sotto di loro una manciata di moli, di pontili e di tettoie segnava la fine di Limito e l’inizio del mare d’Erba. L’erba si estendeva all’infinito, s’increspava sensualmente nelle lieve brezza, sembrava lambire come un verde frangente le zolle delle scarpate. Pareva infinita e ininterrotta, toccava l’orizzonte in due punti cardinali e si estendeva fin dove gli occhi erano in grado di vedere. Non c’era il minimo accenno dei picchi nevosi della Briglia, che si trovavano a circa ottocento chilometri a nordest. L’illusione di guardare uno smisurato mare verde era quasi perfetta, fino al tremolio, provocato dal vento, degli steli verdi che sembravano bianche creste d’onda lontano dalla riva.

— È bellissimo — disse Lamia, che vedeva quello spettacolo per la prima volta.

— Colpisce, al sorgere e al tramontare del sole — commentò il Console.

— Affascinante — mormorò Sol Weintraub, sollevando la piccina perché anche lei vedesse. La bimba ridacchiò, felice, concentrata nell’esame delle proprie dita.

— Un ecosistema ben conservato — approvò Het Masteen. — Il Muir ne sarebbe compiaciuto.

— Merda — disse Martin Sileno.

Gli altri si girarono a fissarlo.

— Non c’è nessun maledetto carro a vela — disse il poeta.

Gli altri cinque uomini, la donna e l’androide fissarono in silenzio le banchine abbandonate e la piana d’erba deserta.

— Sarà in ritardo — disse il Console.