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— È lei, il prossimo? — chiese il Console.- Possiamo ascoltare la sua storia, nell’attesa.

Sol Weintraub si schiarì la voce. — Ho io il numero 4 — disse, mostrando la sua strisciolina di carta. — Ma sarei ben lieto di far cambio con la Vera Voce dell’Albero. — Weintraub passò dalla sinistra di Rachel alla sua destra, e le diede un colpetto leggero sulla schiena.

Het Masteen scosse di nuovo la testa. — No, c’è tempo. Volevo solo far notare che anche nella disperazione c’è sempre una speranza. Finora abbiamo imparato molto dalle storie, eppure ciascuno di noi ha un seme di promessa sepolto molto più in profondità di quanto non abbia ammesso.

— Non capisco… — cominciò padre Hoyt, ma fu interrotto dal grido di Martin Sileno.

— Il carro! Il merdoso carro a vela! È arrivato, finalmente!

Passarono venti minuti, prima che il carro a vela attraccasse a una banchina. L’imbarcazione proveniva da nord: le vele erano riquadri bianchi contro la piana scura ormai priva di colore. L’ultima luce era svanita, quando la grande barca si avvicinò alla bassa scarpata, ripiegò le numerose vele e si fermò.

Il Console ne fu impressionato. Era un’imbarcazione di legno, fatta a mano, gigantesca: s’incurvava nella sagoma da donna incinta d’un galeone della Vecchia Terra. L’unica ruota, enorme, al centro dello scafo ricurvo, normalmente era nascosta dall’erba alta due metri, ma il Console riuscì a dare un’occhiata di sfuggita alla parte inferiore del vascello, mentre trasportava i bagagli sulla banchina. Da terra c’erano almeno sei metri per arrivare al parapetto, e più di cinque volte tanto alla cima dell’albero maestro.

Da dove si era fermato, ansimando per lo sforzo, il Console sentiva lo schiocco degli altissimi pennoni e un ronzio continuo, quasi subsonico, che proveniva o dal volano interno della nave o dai suoi enormi giroscopi.

Dallo scafo superiore fu spinta fuori una passerella che si abbassò fino alla banchina. Padre Hoyt e Brawne Lamia furono costretti ad arretrare in fretta per non farsi schiacciare.

Il carro a vela era meno illuminato della Benares: la luce proveniva da parecchie lanterne appese ai pennoni. Mentre la barca accostava non si era visto equipaggio, e anche ora non venne fuori nessuno.

— Ehilà! — gridò il Console dalla base della passerella. Nessuno rispose.

— Aspettate qui un minuto, per favore — disse Kassad, e con cinque lunghi passi risalì la rampa.

Gli altri guardarono Kassad soffermarsi in cima, toccarsi la cintura in cui teneva la piccola neuroverga e sparire sul polite di mezzo. Alcuni minuti dopo, una luce illuminò le ampie finestre di poppa e lanciò sull’erba sottostante trapezi di giallo.

— Salite — gridò Kassad, dalla cima della rampa. — È vuoto.

Il gruppetto trasportò a bordo i bagagli con parecchi viaggi. Il Console aiutò Het Masteen a portar su il pesante cubo di Moebius e sulla punta delle dita sentì una debole ma intensa vibrazione.

— Ma dove cazzo è finito l’equipaggio? — chiese Martin Sileno quando furono tutti riuniti sul ponte di prua. In fila indiana avevano fatto il giro degli stretti corridoi e delle cabine, su per scale più a pioli che a gradini, e dei locali poco più grandi delle cuccette che contenevano. Solo la cabina più in fondo (quella del capitano, se pure lo era) si avvicinava alla grandezza e alle normali comodità della Benares.

— Chiaramente è tutto automatizzato — disse Kassad. L’ufficiale della FORCE indicò le sagole che sparivano nelle feritoie del ponte, i manipolatori quasi invisibili fra sartiame e pennoni, le tracce di ingranaggi a metà dell’albero poppiero munito di vela latina.

— Non vedo il centro di comando — disse Lamia. — Nemmeno un diskey, né un nesso C. — Tolse dalla tasca sul petto il comlog e cercò di interfacciarsi sulle frequenze di dati standard, di comunicazione e di biomedicina. Non ottenne risposta.

— Un tempo l’equipaggio c’era — disse il Console. — Gli iniziati del Tempio accompagnavano alle montagne i pellegrini.

— Be’, ora non c’è — disse Hoyt. — Ma qualcuno ci sarà, alla stazione della funivia, o a Castel Crono. Ci hanno mandato il carro, no?

— Forse sono tutti morti e il carro segue un programma automatico — disse Lamia. Si guardò alle spalle, quando la velatura e il sartiame scricchiolarono sotto un improvviso colpo di vento. — Maledizione, fa un certo effetto essere tagliati fuori da tutto e da tutti in questo modo. Sembra d’essere sordi e ciechi. Come fanno i coloniali a sopportarlo?

Martin Sileno si accostò al gruppetto e si sedette sul parapetto. Bevve un sorso da una lunga bottiglia verde, e disse:

Dov’è il Poeta? Mostratelo! Mostratelo, mie Muse, che lo conosca! È questo l’uomo che dell’uomo è uguale, sia egli re, o il più povero dei mendicanti, oppure ogni altra meraviglia che l’uomo può essere fra la scimmia e Piatone. E questo l’uomo che con un uccello, scricciolo o aquila, trova la via a tutti i suoi istinti. Ha udito il ruggito del leone e può dire cosa esprime la sua gola rauca, e per lui il grido della tigre esce articolato e preme sul suo orecchio come lingua madre.

— Dove ha preso quella bottiglia di vino? — gli chiese Kassad.

Sileno sorrise. Alla luce di lanterna, i suoi occhi erano piccoli e vividi. — La cambusa è ben fornita, c’è anche il bar. L’ho dichiarato aperto.

— Bisognerebbe preparare la cena — disse il Console, anche se in quel momento desiderava solo un po’ di vino. Non mangiavano da dieci ore.

Sentendo un rumore metallico e un ronzio, tutti e sette si accostarono al parapetto di tribordo. La passerella si era ritirata. Si girarono di nuovo, mentre le vele si srotolavano, le sartie si tendevano e da qualche parte un volano ronzava raggiungendo gli ultrasuoni. Le vele si gonfiarono, il ponte s’inclinò, e il carro a vela si allontanò dalla banchina nell’oscurità. Si sentiva solo lo sbattere delle vele e lo scricchiolio della nave, il lontano brontolio della ruota e il fruscio dell’erba contro la parte inferiore dello scafo.

Tutti e sette rimasero a guardare mentre la scarpata buia si allontanava e il falò che serviva da faro si riduceva al debole bagliore di una luce stellare sopra al legno chiaro; poi ci furono solo il cielo e la notte e i mobili cerchi della luce di lanterna.

— Vado di sotto — disse il Console. — Vedo se riesco a mettere insieme un pasto.

Gli altri si trattennero un poco sul ponte; sotto i piedi sentivano una leggera vibrazione, mentre guardavano scorrere il buio. Il mare d’Erba era adesso solo la linea dove finivano le stelle e iniziava la piatta oscurità. Kassad illuminò di sfuggita con la torcia le vele, le sartie e le funi tirate da mani invisibili; poi controllò tutti gli angoli e i punti in ombra, da poppa a prua. Gli altri rimasero a guardare in silenzio. Quando Kassad spense la torcia, le tenebre sembrarono meno opprimenti, e la luce delle stelle più vivida. Un odore ricco, fertile, più di fattoria in primavera che di mare, arrivò sulle ali della brezza che aveva spazzato mille chilometri d’erba.

Più tardi il Console li chiamò e tutti scesero a cenare.

La cambusa aveva poco spazio e non c’era tavolo mensa: usarono come sala comune la cabina più ampia, quella di poppa, e accostarono tre bauli per ottenere un tavolo di fortuna. Quattro lanterne che dondolavano dalle basse travi illuminarono il locale. La brezza entrò, quando Het Masteen aprì un’alta finestra sopra il letto.

Il Console mise sul baule più grande un vassoio pieno di panini e poi tornò con alcune grosse tazze bianche e un thermos di caffè. Mentre gli altri mangiavano, riempì le tazze.