Il college era in stile georgiano, un assieme di mattoni rossi e colonne bianche intorno all’ovale del parco pubblico. L’ufficio di Sol era al secondo piano di Platcher Hall, il più antico edificio del campus, e d’inverno Sol poteva ammirare i rami spogli che intagliavano nel parco complicati disegni geometrici. Amava la polvere di gesso e l’odore di legno antico di quel posto, un odore che non era cambiato da quando era matricola; e ogni giorno, mentre saliva in ufficio, guardava con piacere i gradini consumati, eredità di venti generazioni di studenti a Nightenhelser.
Sarai era nata in una fattoria a metà fra Bussard e Crawford e aveva conseguito la laurea in teoria della musica un anno prima che Sol si laureasse. Era una ragazza felice e piena di energia, che compensava con la personalità quel che le mancava secondo i canoni comuni della bellezza fisica, e quella non era una dote che si perdeva. Per due anni Sarai aveva studiato all’estero, all’Università di Nuova Lione, su Deneb Drei, ma aveva sofferto di nostalgia: lì i tramonti erano troppo rapidi e le tanto decantate montagne affettavano i raggi del sole come falci frastagliate, mentre lei sentiva il desiderio delle lunghe ore dei tramonti di casa, quando la stella di Barnard rimaneva sospesa all’orizzonte come un enorme, rosso, pallone frenato, e il cielo si raffreddava nella sera. Sentiva la mancanza della perfetta piattezza dove, scrutando dalla sua camera al terzo piano, sotto il tetto spiovente, una ragazzina poteva arrivare con lo sguardo fino a cinquanta chilometri sui campi a mosaico, vedendo le tempeste in arrivo come tende illuminate all’interno dai fulmini. E sentiva la mancanza della famiglia.
Conobbe Sol una settimana dopo essersi trasferita a Nightenhelser e, prima che lui le chiedesse di sposarlo e lei accettasse, passarono altri tre anni. All’inizio Sarai non ci vide niente, in quel neolaureato. A quel tempo si vestiva ancora secondo la moda della Rete, aveva la passione delle teorie musicali post-distruzionistiche, leggeva Obit, Nihil e le riviste d’avanguardia di Vettore Rinascimento e di TC2, affettava una sofisticata noia di vivere e parlava come una ribelle… e niente di tutto questo si accordava con il tozzo ma ansioso professore di storia che, alla festa in onore del Decano Moore, le aveva versato addosso un po’ di cocktail di frutta. I caratteri esotici che Sol Weintraub aveva ereditato dal suo retaggio ebraico furono subito vanificati dalla sua inflessione, tipica della gente del MdB, dal guardaroba di Crawford Squire Shop e dal fatto che fosse venuto alla festa tenendo distrattamente sotto braccio una copia delle Solitudini in varianza di Detresque.
Per Sol fu invece amore a prima vista. Fissò la ragazza dalle guance rosse e dal sorriso simpatico e non badò al suo abito costoso e alle sue unghie da mandarino cinese, per concentrarsi sulla sua personalità, che secondo lui brillava come un faro. Sol non si era accorto di essere un solitario finché non aveva incontrato Sarai; ma quando le strinse la mano e le versò sul vestito un po’ di macedonia di frutta, capì che la sua vita sarebbe stata per sempre vuota, se non si fossero sposati.
Si sposarono la settimana dopo l’annuncio che a Sol era stato affidato un incarico d’insegnamento al college. Trascorsero la luna di miele su Patto-Maui (la prima esperienza di Sol col teleporter), affittarono per tre settimane un’isola mobile e veleggiarono in solitudine fra le meraviglie dell’Arcipelago Equatoriale. Sol non dimenticò mai quei giorni pieni di sole e di vento; e l’immagine segreta che avrebbe sempre conservato come un tesoro era quella di Sarai che usciva nuda dall’acqua dopo un bagno notturno: le stelle del Nucleo brillavano sopra di lei e il suo corpo luccicava di costellazioni per la fosforescenza della scia dell’isola mobile.
Volevano subito un figlio, ma solo dopo cinque anni la natura si decise a collaborare.
Sol ricordava come aveva cullato fra le braccia Sarai, mentre lei si torceva nel dolore per il parto difficile finché finalmente, incredibilmente, alle due del mattino, nel Centro medico della contea di Crawford, Rachel Sarah Weintraub nacque.
La presenza d’una neonata s’intromise nella vita egocentrica, da serio accademico, di Sol e nella professione di Sarai, critico musicale per la sfera dati di Barnard, ma nessuno dei due ne soffrì. I primi mesi furono un misto di stanchezza costante e di gioia. A notte tarda, fra un pasto e l’altro della piccina, Sol andava in punta di piedi alla nursery solo per controllare Rachel e starsene a guardarla. La maggior parte delle volte Sarai era già lì e tutti e due, mano nella mano, guardavano il miracolo della bimba addormentata, col culetto in aria e la testa affondata nell’imbottitura della culla.
Rachel era uno di quei rari bambini che riescono a essere graziosi senza farlo pesare; a due anni standard, era straordinaria sia come aspetto sia come personalità… i capelli castano chiaro, le guance rosse e l’ampio sorriso della madre, i grandi occhi castani del padre. Gli amici dicevano che la bambina aveva ereditato le parti migliori della sensibilità di Sarai e dell’intelligenza di Sol. Un altro amico, uno psicologo infantile del college, una volta disse che Rachel a cinque anni mostrava tutti i segni di una creatura particolarmente dotata: curiosità razionale, simpatia per gli altri, compassione, un forte senso di lealtà.
Un giorno, nel suo studio, mentre esaminava antichi documenti della Vecchia Terra, Sol lesse un articolo su come Beatrice avesse influenzato la concezione del mondo di Dante e fu colpito da un brano scritto da un critico del Ventesimo o Ventunesimo secolo:
Per lui, solamente Beatrice era reale, dava significato al mondo, e bellezza. La sua natura diventò per lui il punto di riferimento… quel che Melville chiamerebbe, con maggiore assennatezza di quella cui ora siamo in grado di fare appello, il suo meridiano di Greenwich…
Sol s’interruppe per cercare la definizione di meridiano di Greenwich, poi riprese a leggere. Il critico aveva aggiunto una nota personale:
Molti di noi, mi auguro, hanno avuto figli, mogli o amici simili a Beatrice, persone che per la loro stessa natura, per l’ovvia bontà innata e per l’intelligenza ci rendono scomodamente consapevoli delle nostre menzogne, quando mentiamo.
Sol aveva spento lo schermo ed era rimasto a fissare le nere figure geometriche disegnate dai rami sopra il parco.
Rachel non era insopportabilmente perfetta. A cinque anni standard, tagliò con cura i capelli alle cinque bambole preferite e poi i suoi, ancora più corti. A sette anni, decise che gli operai stagionali alloggiati nelle case diroccate della periferia sud non avevano una dieta nutriente e svuotò le dispense di casa, i frigoriferi, i congelatori e i banchi di sintesi, convinse tre amici ad accompagnarla e distribuì l’equivalente di alcune centinaia di marchi del budget mensile per il vitto della famiglia.
A dieci anni, in risposta a una sfida di Stubby Berkowitz, si arrampicò sul più vecchio olmo di Crawford. Era arrivata a quaranta metri, meno di cinque dalla cima, quando un ramo si ruppe e lei precipitò per una trentina di metri. Sol fu chiamato al comlog, mentre stava discutendo le implicazioni morali del primo disarmo nucleare della Terra: lasciò l’aula senza una parola, e fece di corsa i dodici isolati che lo separavano dal Centro medico.
Rachel si era rotta la gamba sinistra e due costole, aveva il polmone perforato e una frattura alla mascella. Galleggiava nel bagno di liquido nutritivo, quando Sol entrò come un uragano, ma riuscì a guardare da sopra la spalla della madre, a sorridere e a dire, nonostante il ferro alla mascella: «Papà, ero a cinque metri dalla cima. Forse meno. Ce la faccio, la prossima volta».