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Sol sognò di vagare in un grande edificio con colonne grosse come piccole sequoie e un soffitto che si perdeva in alto, dal quale cadevano solidi raggi di luce rossa. Di tanto in tanto aveva fuggevoli visioni di cose lontanissime nelle tenebre, a sinistra o a destra; una volta distinse un paio di gambe di pietra che si ergevano come edifici massicci nel buio e un’altra volta vide quello che sembrava uno scarabeo di cristallo che ruotava molto in alto su di lui, con le interiora illuminate di luci fredde.

Alla fine si fermò a riposare. Molto più indietro sentiva rumori simili a gigantesche esplosioni, al crepitare dell’incendio di intere città e foreste. Davanti a lui brillavano le luci alle quali si dirigeva, due ovali d’un rosso intensissimo.

Si stava asciugando dalla fronte il sudore, quando una voce possente gli disse:

“Sol! Prendi tua figlia, la tua unica figlia Rachel da te amata, vai sul mondo chiamato Hyperion e offrila come olocausto in uno dei luoghi che ti dirò”.

E in sogno Sol si alzò e replicò: “Non dirai certo sul serio!” Proseguì nel buio: ora gli ovali rossi brillavano come lune sanguigne sopra una piana indistinta e, quando si fermò a riposare, la voce possente disse:

“Sol! Prendi tua figlia, la tua unica figlia Rachel da te amata, vai sul mondo chiamato Hyperion e offrila come olocausto in uno dei luoghi che ti dirò”.

E Sol allontanò con una scrollata di spalle il peso di quelle parole e disse con voce chiara nelle tenebre: “Avevo sentito anche prima… La risposta è sempre no”.

Poi Sol capì che stava sognando e, mentre una parte della sua mente apprezzava l’ironia del copione, un’altra voleva solo svegliarsi. Invece si ritrovò su un basso balcone che dava su una stanza in cui Rachel giaceva nuda sopra un largo blocco di pietra. La scena era illuminata dal bagliore dei due occhi rossi. Sol si guardò la destra e scoprì di reggere un lungo coltello dalla lama ricurva. Lama e manico sembravano d’osso.

La voce, che a Sol sembrava sempre più vicina all’idea della voce di Dio di un produttore di olofilm di terz’ordine, parlò di nuovo:

“Sol! Ascolta bene. Il futuro dell’umanità dipende dalla tua ubbidienza. Devi prendere tua figlia, la tua unica figlia Rachel da te amata, devi andare sul mondo chiamato Hyperion e offrirla come olocausto in uno dei luoghi che ti dirò”.

E Sol, nauseato dal sogno ma in qualche modo allarmato, si girò e scagliò lontano nel buio il coltello. Quando tornò a voltarsi verso sua figlia, la scena era svanita. Gli occhi rossi erano più vicini che mai, e Sol vide che erano gemme sfaccettate della grandezza di due piccoli pianeti.

La voce amplificata risuonò di nuovo:

“Allora? Hai avuto la tua opportunità, Sol Weintraub. Se cambi idea, sai dove trovarmi”.

E Sol si svegliò, un po’ ridendo del sogno, un po’ spaventato. Pensò, divertito, che l’intero Talmud e il Vecchio Testamento forse erano soltanto una buffa storiella cosmica con una conclusione paradossale.

Più o meno nel periodo in cui Sol aveva fatto il sogno, Rachel stava completando il suo primo anno di ricerca su Hyperion. La squadra di nove archeologi e di sei fisici aveva trovato Castel Crono affascinante ma troppo affollato di turisti e di cosiddetti pellegrini dello Shrike; così, dopo il primo mese di audizioni, i ricercatori piazzarono un campo fisso fra la città in rovina e il piccolo canyon in cui si trovavano le Tombe del Tempo.

Mentre mezza squadra eseguiva scavi nelle zone più recenti della città mai terminata, due colleghi aiutarono Rachel a catalogare ogni aspetto delle Tombe. I fisici, affascinati dai campi anti-entropici, passavano gran parte del tempo a sistemare bandierine di diverso colore per segnare i limiti delle cosiddette maree.

La squadra di Rachel si concentrò sulla costruzione denominata Sfinge, anche se la creatura rappresentata nella pietra non era né umana né leonina. Forse non era affatto una creatura, anche se le linee levigate in cima al monolito di pietra suggerivano le curve d’un essere vivente e le ampie appendici davano a tutti l’impressione di ali. A differenza delle altre Tombe, aperte e facili da ispezionare, la Sfinge era una massa di pesanti blocchi traforati da stretti corridoi, alcuni dei quali si restringevano in modo impossibile, mentre altri si allargavano fino all’ampiezza di un salone; ma ciascuno immetteva solo in altri corridoi. Non c’erano cripte, sale del tesoro, sarcofaghi saccheggiati, pitture murali e passaggi segreti: solo un labirinto di corridoi oscuri nell’umida pietra.

Rachel e il suo amante, Melio Arundez, iniziarono a disegnare la mappa della Sfinge secondo un metodo in uso da almeno settecento anni, sperimentato nelle piramidi d’Egitto intorno al Ventesimo secolo. Piazzarono nei punti più bassi della Sfinge rivelatori di radiazioni e di raggi cosmici e registrarono il tempo d’arrivo e lo schema di deflessione delle particelle che attraversavano la massa di pietra sosprastante, pronti a scoprire sale nascoste o passaggi che non sarebbero stati individuati neppure dal radar a immagine profonda. A causa dell’intensa stagione turistica e dell’interesse del Consiglio Autonomo di Hyperion di evitare alle Tombe danni provocati da ricerche del genere, Rachel e Melio andavano sul posto ogni notte a mezzanotte con una camminata di mezz’ora, e strisciavano nel labirinto di corridoi che avevano dotato di globi di luce azzurra. Lì, seduti sotto centinaia di migliaia di tonnellate di pietra, osservavano gli strumenti fino al mattino, ascoltando negli auricolari il ping delle particelle nate nel ventre di stelle morenti.

Le maree del tempo non causavano difficoltà, con la Sfinge. Di tutte le Tombe, questa sembrava la meno protetta dai campi anti-entropici e i fisici avevano segnato con cura i momenti in cui l’arrivo delle maree poteva costituire una pericolo. L’alta marea si verificava alle dieci e dopo soli venti minuti si allontanava verso la Tomba di Giada, mezzo chilometro più a sud. I turisti non potevano avvicinarsi alla Sfinge fin dopo le dodici; inoltre, per maggiore sicurezza, già alle nove ci si accertava che se ne fossero andati. La squadra di fisici aveva impiantato alcuni sensori cronotropici in vari punti lungo i sentieri e i passaggi fra le Tombe, sia per segnalare le variazioni di marea sia per avvertire i visitatori.

Una notte, quando mancavano tre settimane alla fine dell’anno di ricerca su Hyperion, Rachel si svegliò, lasciò l’amante addormentato, prese una jeep e andò alle Tombe. Lei e Melio avevano deciso che era sciocco sorvegliare insieme l’attrezzatura ogni notte. Ora si alternavano: uno lavorava sul posto, mentre l’altro raccoglieva i dati e si preparava al progetto finale, il rilevamento radar delle dune fra la Tomba di Giada e l’Obelisco.

La notte era fresca e bella. Da orizzonte a orizzonte brillava una profusione di stelle, in un numero quattro o cinque volte superiore a quelle visibili dal Mondo di Barnard, sotto le quali Rachel era cresciuta. Le basse dune mormoravano e si spostavano sotto la forte brezza che soffiava dalle montagne meridionali.

Al sito le luci erano ancora accese. La squadra dei fisici aveva smesso di lavorare e stava caricando la jeep. Rachel scambiò con loro quattro chiacchiere, bevve una tazza di caffè mentre loro se ne andavano, poi riprese lo zaino e camminò per venticinque minuti, fino al basamento della Sfinge.

Per la centesima volta si domandò chi avesse costruito le Tombe e a quale scopo. La datazione dei materiali si era rivelata inutile a causa dei campi anti-entropici. Solo l’analisi delle Tombe in rapporto all’erosione del canyon e di altre caratteristiche geologiche dei dintorni aveva indotto gli scienziati a stimare che quei manufatti avessero almeno mezzo milione di anni. Si aveva la sensazione che gli architetti delle Tombe fossero stati esseri umanoidi, anche se non c’era niente a suggerirlo a parte la scala degli edifici. Certo i corridoi interni della Sfinge rivelavano poco: alcuni, per forma e grandezza, erano abbastanza umani; ma a volte, dieci metri più avanti, gli stessi corridoi si restringevano in un cunicolo della grandezza di una tubatura fognaria, per poi trasformarsi in qualcosa di più ampio e regolare di una caverna naturale. Le porte, se così potevano definirsi, visto che non si aprivano su nessun locale in particolare, avevano con identica frequenza forma di rettangolo, di triangolo, di trapezio o di decagono.