Negli ultimi dieci metri Rachel strisciò giù per una ripida pendenza, spingendo davanti a sé lo zaino. I globi luminosi privi di calore davano alla roccia e alla carne una sfumatura livida, esangue. Lo “scantinato”, quando lo raggiunse, le sembrò un porto di disordine umano e di odori. Alcune sedie pieghevoli occupavano il centro del piccolo spazio; rivelatori, oscilloscopi e altre attrezzature riempivano lo stretto tavolo contro la parete nord. Sopra un’asse coi cavalietti, lungo la parete opposta, c’erano tazze da caffè, una scacchiera, una mezza ciambella, due libri in brossura e un giocattolo di plastica che rappresentava una sorta di cane con una sottana d’erba.
Rachel si sedette, posò accanto al cane il thermos di caffè e controllò i rivelatori di raggi cosmici. I dati sembravano sempre uguali: niente stanze o passaggi segreti, solo alcune nicchie sfuggite perfino al radar di profondità. Al mattino, Melio e Stefan avrebbero messo in funzione una sonda, vi avrebbero inserito un filamento d’olocamera e avrebbero analizzato l’aria prima di scavare più a fondo con il micro-manipolatore. Fino a quel momento, una decina di nicchie non aveva rivelato nulla d’interessante. Nel campo circolava una battuta: il prossimo foro, non più grande d’un pugno, avrebbe rivelato sarcofaghi in miniatura, urne di formato ridotto e una piccola mummia o, come aveva detto Melio, “un minuscolo Tutankhamen”.
Per forza d’abitudine, Rachel provò i collegamenti sul comlog. Niente. Quaranta metri di pietra bloccavano le comunicazioni. Si era parlato di far passare un cavo telefonico dallo scantinato alla superficie, ma finora non c’era stata urgenza e adesso la spedizione aveva quasi concluso il suo periodo di studi. Rachel regolò i canali d’input del comlog per tenere sotto controllo i dati del rivelatore e si preparò a una notte di noia.
C’era la meravigliosa storia di quel faraone della Vecchia Terra (si trattava di Cheope?) che aveva autorizzato la costruzione della sua gigantesca piramide, aveva accettato che la camera di sepoltura fosse costruita in profondità al centro dell’edificio e poi, per anni, di notte era rimasto sveglio in preda alla claustrofobia a pensare a tutte quelle tonnellate di pietra sopra di lui per l’eternità. Alla fine aveva ordinato di costruire più in alto la camera funeraria. Una cosa davvero poco ortodossa. Rachel capiva il re. Si augurò che ora dormisse meglio, dovunque fosse.
Anche lei si era quasi assopita, quando, alle due e un quarto, il comlog trillò, i rivelatori urlarono e lei saltò in piedi. Secondo i sensori, nella Sfinge erano spuntate all’improvviso una decina di stanze nuove, alcune più grandi dell’intera struttura. Rachel batté i tasti per avere un’immagine e l’aria si annebbiò di modellini che cambiavano forma sotto i suoi occhi. Schemi di corridoi si avvolgevano su se stessi come rotanti strisce di Moebius. I sensori esterni indicavano che la struttura superiore si torceva e si piegava come poliflex nel vento… o come ali.
Rachel capì che il fenomeno era dovuto a distorsioni multiple e, mentre cercava di ricalibrare gli strumenti, chiese al comlog dati e stampe. Poi, tutte insieme, accaddero diverse cose.
Nel corridoio superiore risuonarono dei passi.
Tutti gli schermi si spensero nello stesso istante.
Da qualche parte, nel labirinto di corridoi, risuonò l’allarme che annunciava una marea del tempo.
Tutte le luci si spensero.
Quest’ultimo fatto non aveva senso. Ogni complesso strumentale era fornito della propria fonte energetica e sarebbe rimasto acceso anche durante un attacco nucleare. Le lampade dello scantinato avevano una batteria che durava dieci anni. I globi nei corridoi erano bioluminescenti e funzionavano senza corrente elettrica.
Eppure le luci si spensero. Dalla tasca sul ginocchio della tuta Rachel estrasse una torcialaser e l’accese. Non accadde niente.
Per la prima volta in vita sua, Rachel Weintraub sentì la paura serrarle il cuore come in un pugno. Le mancava il fiato. Per dieci secondi si impose di restare assolutamente immobile, senza nemmeno tendere l’orecchio, aspettando solo che il panico passasse. Quando fu abbastanza calma da respirare senza affanno raggiunse a tentoni gli strumenti e batté sui tasti. Non ottenne reazioni. Alzò il comlog e azionò il diskey. Niente… ed era assurdo, ovviamente, considerata l’invulnerabilità stato-solida e l’affidabilità della batteria dello strumento. Eppure, non ci furono reazioni.
Ora Rachel sentiva il battito del proprio cuore, ma dominò di nuovo il panico e cominciò a dirigersi a tentoni verso l’unica uscita. Il solo pensiero di dover trovare la strada in quel labirinto buio le faceva venir voglia di urlare, ma non aveva alternativa.
Un momento. Nel labirinto della Sfinge una volta c’erano delle lampadine di vecchio tipo, ma al loro posto la squadra di ricercatori aveva appeso alcuni globi biolum. Li aveva appesi. A un cavo di perlon che arrivava fino alla superficie.
Magnifico. Rachel si diresse a tentoni verso l’uscita. Sotto le dita sentiva la pietra fredda. Era così fredda anche prima?
Udì il suono chiarissimo di qualcosa di duro che grattava avanzando nel pozzo d’accesso.
«Melio?» chiamò Rachel. «Tanya? Kurt?»
Lo sfregamento risuonò molto vicino. Rachel arretrò nel buio, rovesciò uno strumento e una sedia. Qualcosa le toccò i capelli. Rachel ansimò, alzò la mano.
Il soffitto era più basso di prima. Il solido blocco di pietra — cinque metri quadrati — si abbassò ancora, mentre lei alzava l’altra mano a toccarlo. L’apertura che dava sul corridoio era a metà parete. Rachel barcollò in quella direzione, agitando davanti a sé le mani come una cieca. Inciampò in una sedia pieghevole, trovò il tavolo degli strumenti, lo seguì fino alla parete opposta, sentì sparire la parte inferiore dell’apertura mentre il soffitto si abbassava ancora. Tirò indietro le dita un attimo prima di farsele mozzare.
Si sedette nel buio. Un oscilloscopio raschiò contro il soffitto, finché il tavolo non scricchiolò e crollò. Rachel mosse la testa in brevi, disperati archi. Udì un raspare metallico, quasi un respiro, a meno d’un metro. Cominciò ad arretrare, strisciando sul pavimento ora disseminato di apparecchiature in frantumi. Il respiro le si accelerò.
Qualcosa di pungente e di infinitamente gelido le afferrò il polso.
Rachel, alla fine, urlò.
Su Hyperion, a quel tempo, non esistevano trasmettitori astrotel. E neppure la spin-nave AE Farraux City aveva apparecchiature per comunicazioni a velocità superiore a quella della luce. Perciò Sol e Sarai vennero a sapere dell’incidente accaduto alla figlia solo quando il Consolato dell’Egemonia su Parvati comunicò al college che Rachel era rimasta ferita, che al momento era in condizioni stazionarie, ma priva di conoscenza, e che stava per essere trasferita da Parvati a Vettore Rinascimento, nella Rete, con una nave-torcia medica. Il viaggio sarebbe durato poco più di dieci giorni, tempo della nave, con un debito temporale di cinque mesi. Questi cinque mesi furono una vera sofferenza, per Sol e per sua moglie; quando la nave-torcia attraccò al nesso teleporter di Rinascimento, già mille volte i due avevano pensato al peggio. Non vedevano Rachel ormai da otto anni.
Il Centro medico di Da Vinci era una torre galleggiante sostenuta da energia a emissione diretta. La vista sul mar di Como mozzava il fiato, ma né Sol né Sarai avevano tempo d’ammirarla, mentre passavano di piano in piano alla ricerca della figlia. La dottoressa Singh e Melio Arundez li aspettavano al centro del reparto Cure Intensive. Si scambiarono in fretta le presentazioni.