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«Sì» disse Sol.

«Mi sono svegliata stamattina e ho pensato: “Domani c’è l’esame di paleontologia e non ho studiato niente”. Mi aspettavo di mostrare un paio di cosette a Roger Sherman… si crede così intelligente!»

Sol bevve un sorso. «Roger è morto tre anni fa, in un disastro aereo a sud di Bussard» disse. Non avrebbe parlato, se non fosse stato pieno di whisky, ma doveva scoprire se c’era una Rachel nascosta dentro la Rachel.

«Lo so» disse Rachel. Tirò contro il mento le ginocchia. «Ho cercato di contattare tutti quelli che conoscevo. Nonna è morta. Il professor Eikhardt non insegna più. Niki ha sposato un… commesso viaggiatore! Succedono molte cose, in quattro anni.»

«In dodici e passa. Il viaggio di andata e ritorno da Hyperion ti ha lasciata indietro di sei anni rispetto a noi che siamo rimasti a casa.»

«Ma questo è normale» esclamò Rachel. «La gente viaggia fuori della Rete ogni momento. E ce la fa.»

Sol annuì. «Il tuo caso è diverso, bambina mia.»

Rachel riuscì a sorridere e bevve l’ultimo sorso di whisky. «Ragazzi, che modo di dirlo!» Posò il bicchiere con un colpo rumoroso, definitivo. «Senti, ecco cosa ho deciso. Ho trascorso due giorni e mezzo a ripassare tutta la roba che lei… che io… ho preparato per sapere che cos’è accaduto, che cosa accadrà… e non mi è di nessun aiuto!»

Sol rimase immobile, non osava neppure respirare.

«In altre parole» continuò Rachel «sapere che ogni giorno ringiovanisco, che perdo il ricordo di persone che ancora non ho conosciuto… insomma, che cosa accade dopo? Continuo solo a diventare più giovane e più piccola e meno capace, fino a svanire del tutto, un giorno? Cristo, papà!» Rachel si strinse con più forza le ginocchia. «È buffo, in un certo modo, vero?»

«No» rispose Sol, piano.

«No, sono sicura di no» disse Rachel. Gli occhi, sempre grandi e scuri, erano umidi. «Per te e mamma dev’essere il peggior incubo del mondo. Ogni giorno mi vedete scendere le scale, confusa, che mi sveglio coi ricordi di ieri, ma ascolto la mia stessa voce dirmi che ieri era anni fa. Che ho avuto una relazione con un certo Amelio…»

«Melio» mormorò Sol.

«Fa lo stesso. Non mi aiuta, papà. Appena comincio ad assorbire le cose, sono così esausta che devo dormire. Poi… be’, sai cosa accade dopo.»

«Cosa…» iniziò Sol, ma fu costretto a schiarirsi la voce. «Cosa vuoi che facciamo, piccolina?»

Rachel lo guardò negli occhi e sorrise. Era lo stesso sorriso di cui lo aveva gratificato dalla quinta settimana di vita. «Non dirmi niente, papà» disse con fermezza. «Non permettere che sia io stessa a dirmelo. Fa solo male. Vedi, sono giorni che non ho vissuto…» Esitò, si toccò la fronte. «Sai cosa intendo, papà. La Rachel che andò su un altro pianeta e s’innamorò e fu ferita… era una Rachel diversa! Non dovrei essere io a soffrire il suo dolore.» Ora piangeva. «Capisci, papà? Capisci?»

«Sì» disse Sol. Aprì le braccia e sentì contro il petto il suo calore e le sue lacrime. «Sì, capisco.»

L’anno seguente, i messaggi astrotel da Hyperion arrivarono con una buona frequenza ma furono tutti negativi. Non erano state scoperte la natura e l’origine dei campi anti-entropici. Intorno alla Sfinge non si erano rilevate attività insolite della marea del tempo. Esperimenti con animali da laboratorio, dentro e intorno alle zone di marea, si erano conclusi con la morte improvvisa di alcuni animali, ma nessuno aveva contratto il morbo di Merlino. Melio concludeva ogni messaggio con le parole: «Il mio amore a Rachel».

Sol e Sarai si fecero prestare del denaro dall’università Reichs per sottoporsi a un limitato trattamento Poulsen, a Bussard. Erano ormai troppo anziani per il procedimento d’estensione della vita per un altro secolo, ma riebbero l’aspetto di una coppia vicina ai cinquanta standard anziché ai settanta. Esaminarono vecchie foto di famiglia e scoprirono che non era molto difficile vestirsi come ci si vestiva quindici anni prima.

Una Rachel sedicenne scese le scale, con il comlog sintonizzato sulla stazione radio del college. «Posso avere fiocchi di riso?»

«Non li mangi ogni mattina?» sorrise Sarai.

«Sì» ridacchiò Rachel. «Pensavo solo che forse andavamo fuori o chissà cosa. Ho sentito il telefono. Era Niki?»

«No» disse Sol.

«Accidenti!» disse Rachel, dando loro un’occhiata. «Scusate, ma Niki ha promesso di chiamare appena si sapevano i punteggi standard. Tre settimane dal corso tutoriale. Dovrei già sapere qualcosa.»

«Non pensarci» disse Sarai. Portò in tavola il bricco, iniziò a versare a Rachel una tazza di caffè, poi lo versò per sé. «Non preoccuparti, tesoro. Sono sicura che il tuo punteggio sarà abbastanza buono da farti ammettere a qualsiasi scuola tu voglia.»

«Mamma» sospirò Rachel. «Tu non capisci. Il mondo esterno è spietato.» Corrugò la fronte. «Hai visto per caso il mio questionario di matematica? La mia stanza è tutta in disordine. Non trovo niente.»

Sol si schiarì la voce. «Oggi niente lezioni, bambina.»

Rachel lo guardò. «Niente lezioni? Di martedì? A sei settimane dagli esami? Cosa succede?»

«Sei stata ammalata» disse Sarai, in tono fermo. «Puoi stare a casa un giorno. Solo oggi.»

La ruga di Rachel divenne più marcata. «Malata? Non mi sento male. Solo un po’ strana. Come se le cose, non fossero… non fossero giuste, per così dire. Perché il divano è spostato nella stanza dei media? E dov’è Chips? Ho continuato a chiamarlo, ma non s’è fatto vedere.»

Sol sfiorò il polso della figlia. «Sei stata male per un pezzo» disse. «Il medico ha detto che forse ti saresti svegliata con qualche vuoto di memoria. Facciamo due chiacchiere, mentre andiamo al campus. Ti va?»

Rachel s’illuminò. «Saltare le lezioni e andare al college? Ma certo.» Finse un’aria costernata. «Purché non ci imbattiamo in Roger Sherman. Segue il corso di matematica per matricole ed è una vera piaga.»

«Non lo vedremo» disse Sol. «Sei pronta?»

«Quasi.» Rachel si alzò per abbracciare la madre. «Ciao ciao, maramao.»

«A fra poco, bel topo» disse Sarai.

«Certo» ridacchiò Rachel, facendo ondeggiare i capelli lunghi. «Sono pronta.»

I continui viaggi a Bussard avevano reso necessario l’acquisto di un VEM. In una fresca giornata d’autunno, Sol prese il percorso più lento, molto al di sotto delle corsie piene di traffico, godendosi la vista e il profumo dei campi da poco mietuti. Parecchie persone al lavoro agitarono il braccio a salutarlo.

Bussard era cresciuta moltissimo, dall’infanzia di Sol; ma la sinagoga era sempre lì, ai margini di uno dei quartieri più vecchi della città. Il tempio era vecchio, Sol si sentiva vecchio, anche lo yarmulke che indossò nell’entrare sembrava vecchio, consunto da decenni d’uso; ma il rabbino era giovane. Sol capì che l’uomo aveva almeno quarant’anni (i capelli erano già radi, ai lati dello zuccotto nero), ma ai suoi occhi era poco più d’un ragazzo. Si sentì sollevato quando l’altro suggerì di terminare la conversazione nel parco, dall’altra parte della via.

Si sedettero sopra una panchina. Sol fu sorpreso nell’accorgersi di portare ancora lo yarmulke e di passarlo da una mano all’altra.

Il giorno odorava di foglie bruciate e della pioggia della notte precedente.

«Non capisco bene, signor Weintraub» disse il rabbino. «Quel che la turba è il sogno, o il fatto che sua figlia si sia ammalata da quando il sogno stesso ha cominciato a manifestarsi?»

Sol alzò la testa per sentire in viso il sole. «Nessuna delle due cose, esattamente» rispose. «Ho la sensazione che le due cose siano in qualche modo collegate e non riesco a liberarmene.»

Il rabbino si passò il dito sul labbro inferiore. «Quanti anni ha sua figlia?»