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«Tredici» rispose Sol, dopo una pausa impercettibile.

«E la malattia… è grave? C’è pericolo di morte?»

«No… non ancora.»

Il rabbino incrociò le braccia sul grosso ventre. «Non crederà… posso chiamarla Sol?»

«Certo.»

«Sol, non crederà per caso che lei, facendo questo sogno… in qualche modo abbia causato la malattia della bambina?»

«No» rispose Sol. Tacque un momento, chiedendosi nell’intimo se diceva la verità. «No, rabbi. Non credo…»

«Mi chiami Mort, Sol.»

«D’accordo, Mort. Non sono venuto perché penso che io, o il sogno, causiamo la malattia di Rachel. Ma credo che il mio subconscio cerchi di dirmi qualcosa.»

Mort si dondolò leggermente. «Forse un neurospecialista o uno psicologo potrebbero aiutarla, Sol. Non sono sicuro di essere…»

«M’interessa la storia di Abramo» lo interruppe Sol. «Cioè, ho avuto alcune esperienze con sistemi etici diversi, ma mi è difficile capire un sistema iniziato con l’ordine a un padre di uccidere il proprio figlio.»

«No, no, no!» esclamò il rabbino, agitandogli davanti dita curiosamente infantili. «Al momento del sacrificio, Dio fermò la mano di Abramo. Non avrebbe permesso un sacrificio umano in Suo nome. Era l’ubbidienza alla volontà del Signore, quel che voleva…»

«Sì» disse Sol. «Ubbidienza. Ma è scritto: “Allora Abramo tese la mano e prese il coltello per uccidere suo figlio”. Dio avrà certo guardato nella sua anima, avrà visto che Abramo era davvero pronto a uccidere Isacco. Una semplice esibizione di ubbidienza, senza un’intima convinzione, non avrebbe soddisfatto il dio della Genesi. Cosa sarebbe accaduto, se Abramo avesse amato suo figlio più di quanto amava il suo Dio?»

Per un momento Mort tamburellò con le dita sul ginocchio, poi allungò la mano a stringere il braccio di Sol. «Sol, vedo che è sconvolto per la malattia di sua figlia. Non faccia confusione con un documento scritto ottomila anni fa. Mi spieghi meglio la situazione della piccola. Voglio dire, i bambini non muoiono più di malattia. Non nella Rete.»

Sol si alzò, sorrise, arretrò d’un passo per liberare il braccio. «Mi piacerebbe parlarne ancora, Mort. Vorrei farlo. Ma devo tornare. Ho lezione, stasera.»

«Verrà al tempio, sabato?» gli chiese il rabbino, tendendo le dita tozze per un ultimo contatto umano.

Sol lasciò cadere lo yarmulke nelle mani dell’altro. «Uno di questi giorni, forse, Mort. Uno di questi giorni verrò.»

Più avanti, quello stesso autunno, una sera, guardando dalla finestra dello studio, Sol scorse la sagoma scura d’un uomo fermo sotto l’olmo spoglio di fronte alla casa. I media, pensò, sentendosi sprofondare. Da un decennio temeva il giorno in cui il segreto sarebbe stato scoperto: avrebbe significato la fine della loro vita semplice a Crawford. Uscì nell’aria fredda della sera. «Melio!» esclamò, quando vide in viso l’uomo alto.

L’archeologo era fermo, con le mani nelle tasche del lungo soprabito azzurro. Nonostante i dieci anni standard dal loro ultimo incontro, Arundez era invecchiato ben poco: Sol pensò che fosse ancora sulla soglia della trentina. Ma il viso abbronzato era segnato da rughe di preoccupazione. «Sol» disse, e gli tese la mano quasi con timidezza.

Sol la strinse calorosamente. «Non sapevo del tuo ritorno. Vieni dentro.»

«No.» L’archeologo arretrò d’un passo. «Sto qui fuori da un’ora, Sol. Non avevo il coraggio di venire alla porta.»

Sol aprì bocca, ma si limitò ad annuire. Mise anche lui le mani in tasca per difenderle dal freddo. Sopra il tetto scuro spiovente si vedevano le prime stelle. «Al momento Rachel non è in casa» disse poi. «È andata in biblioteca. Pensa… pensa di dover fare un compito scritto di storia.»

Melio fece un respiro rauco e annuì a sua volta. «Sol» disse, con la voce impastata «tu e Sarai dovete sapere che abbiamo fatto tutto il possibile. La squadra è rimasta su Hyperion per quasi tre anni standard. Saremmo rimasti ancora, se l’università non avesse smesso di finanziarci. Non c’era niente…»

«Lo sappiamo» disse Sol. «Ti ringraziamo per i messaggi.»

«Io stesso ho trascorso mesi interi, da solo, dentro la Sfinge» continuò Melio. «Secondo gli strumenti, era solo un mucchio di pietra inerte, ma ha volte ho creduto di sentire… qualcosa…» Scosse di nuovo la testa. «Non sono riuscito ad aiutarla, Sol.»

«No» disse Sol. Strinse la spalla del giovane sotto il soprabito di lana. «Ma voglio chiederti una cosa. Ci siamo messi in contatto con i nostri senatori… abbiamo anche parlato ai direttori del Consiglio scientifico… ma nessuno sa spiegarmi perché l’Egemonia non abbia investito più tempo e denaro per investigare i fenomeni di Hyperion. Secondo me, già da parecchio avrebbero dovuto accoglierlo nella Rete, se non altro per il suo potenziale scientifico. Come si può ignorare un enigma del calibro delle Tombe?»

«Capisco cosa intendi, Sol. Anche il taglio anticipato delle nostre sovvenzioni è sospetto. Sembra quasi che l’Egemonia segua la politica di tenere Hyperion a distanza.»

«Pensi forse…» cominciò Sol; ma in quel momento Rachel si avvicinò a loro nel crepuscolo autunnale. Teneva le mani sprofondate nella giacca rossa, portava i capelli corti secondo la moda degli adolescenti di qualsiasi luogo, e le guance piene erano arrossate dal freddo. Rachel era in bilico fra l’infanzia e la prima giovinezza; con le gambe lunghe rivestite di jeans, le scarpe da tennis e il giubbotto voluminoso, poteva essere la sagoma di un ragazzo.

Sorrise. «Ciao, papà.» Si avvicinò nella luce fioca e rivolse un timido cenno di saluto a Melio. «Scusatemi, non volevo interrompere la conversazione.»

Sol fece un sospiro. «Non fa niente, bambina. Rachel, ti presento il dottor Arundez, dell’università di Reichs, su Freeholm. Dottor Arundez, mia figlia Rachel.»

«Piacere di conoscerla» disse Rachel, illuminandosi sul serio, ora. «Uau, Reichs! Ho letto i loro cataloghi. Mi piacerebbe davvero frequentarla, un giorno.»

Melio annuì, teso. Sol notò la rigidità delle sue spalle e del busto. «Cosa…» cominciò Melio. «Cosa ti piacerebbe studiare, lì?»

Sol pensò che il dolore nella voce del giovane non potesse passare inosservato a Rachel, ma la bambina si limitò a scrollare le spalle con una risata. «Oddio, tutto! Il vecchio signor Eikhardt… l’insegnante di paleontologia e di archeologia che tiene il corso avanzato… dice che c’è una sezione grandiosa riservata ai classici e ai manufatti antichi.»

«È vero» riuscì a dire Melio.

Rachel passò timidamente lo sguardo dal padre allo sconosciuto, come se avesse intuito la tensione fra i due, ma non l’origine. «Be’, continuo solo a interrompervi. Devo entrare e andare a letto. Credo d’avere preso questo virus bizzarro… una sorta di meningite, dice mamma, solo che mi rende un po’ sciocca. Comunque, piacere d’averla conosciuta, dottor Arundez. Spero di rivederla a Reichs, un giorno o l’altro.»

«Spero anch’io» disse Melio, fissandola nel buio con un’intensità tale che Sol ebbe l’impressione che il giovane volesse memorizzare nei minimi particolari quell’istante.

«D’accordo, bene…» disse Rachel, e arretrò, con le suole di gomma che scricchiolavano sul marciapiede. «Buona notte, allora. Ci vediamo domani, papà.»

«Buona notte, Rachel.»

Lei si fermò sulla soglia. La luce a gas del prato la faceva sembrare più giovane dei suoi tredici anni. «Ciao ciao, maramao.»

«A fra poco, bel topo» rispose Sol e udì Melio mormorare la stessa frase.

Per qualche minuto rimasero in silenzio, come oppressi dalla notte che stava calando sulla cittadina. Passò un ragazzo in bicicletta: le foglie scricchiolarono sotto le ruote, i raggi brillarono nelle pozze di luce sotto i vecchi lampioni. «Entra in casa» disse Sol al giovanotto silenzioso. «Sarai ti rivedrà con piacere. Rachel sarà già a letto.»