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Ogni mattina Sol sedeva al capezzale della figlia finché non la vedeva sveglia. Trovava sempre penosi i suoi primi minuti di confusione, ma si accertava di essere la prima cosa che Rachel vedeva ogni mattina. La teneva stretta mentre lei gli faceva delle domande.

«Papà, dove siamo?»

«In un posto meraviglioso, piccolina. Te ne parlerò dopo colazione.»

«Come siamo arrivati qui?»

«Col teleporter e poi camminando un poco. Non è molto lontano… ma quanto basta a renderlo una bella avventura.»

«Ma il lettino… i miei animali di pezza… perché non ricordo il viaggio?»

Allora Sol la stringeva gentilmente per le spalle, la guardava negli occhi e diceva: «Hai avuto un incidente, Rachel. Ricordi che nel Rospo nostalgico, quando batte la testa, Torrence dimentica per qualche giorno dove abita? A te è accaduta una cosa del genere.»

«Ora sto meglio?»

«Sì» diceva Sol. «Ora stai molto meglio.» La casa si riempiva del profumo della colazione e loro due uscivano sul terrazzo dove Sarai li aspettava.

Rachel non aveva mai avuto tanti compagni di giochi. Nel kibbutz c’era una scuola dove lei era sempre la benvenuta, accolta ogni giorno come fosse il primo. Nei lunghi pomeriggi i bambini giocavano nei frutteti e andavano a fare giri d’esplorazione lungo i pendii.

Avner, Robert ed Ephraim, gli anziani del Consiglio, spinsero Sol a lavorare al libro. Hebron era orgoglioso del numero di studiosi, artisti, musicisti, filosofi, scrittori e compositori che ospitava come cittadini e residenti a lungo termine. La casa, precisarono, era un dono dello stato. La pensione di Sol, modesta secondo gli standard della Rete, era più che sufficiente per le esigenze di vita a K’far Shalom. Tuttavia Sol scoprì con sorpresa di apprezzare il lavoro fisico. Sia che coltivasse i frutteti, sia che togliesse i sassi in campi non ancora reclamati, o riparasse un muro sopra la città, Sol trovò che da parecchio tempo non godeva di tanta libertà di mente e di spirito. Scoprì di poter lottare con Kirkegaard, mentre aspettava che la calcina asciugasse; e di poter trovare nuove intuizioni in Kant e in Vandeur, mentre controllava con cura che le mele non fossero bacate. A settantatré anni standard, si procurò i primi calli alle mani.

La sera giocava con Rachel; poi faceva con Sarai una passeggiata fino alla base delle alture, mentre Judy o un’altra ragazza del vicinato teneva d’occhio la bambina addormentata. Un fine settimana andarono a Nuova Gerusalemme, Sol e Sarai da soli, la prima volta insieme da soli da quando Rachel era tornata a vivere con loro.

Ma non tutto era idilliaco. Troppo frequenti erano le notti in cui Sol si svegliava da solo nel letto e andava, scalzo, in fondo al corridoio a vedere Sarai che teneva d’occhio la bambina addormentata. E spesso, alla fine d’una lunga giornata, mentre nella vecchia vasca di ceramica facevano il bagno a Rachel, o mentre le rimboccavano le lenzuola quando le pareti si tingevano di rosa, la bambina diceva: «Qui mi piace, papà, ma domani torniamo a casa?» Sol annuiva. Dopo averle letto una favola, dopo la ninnananna e il bacio della buonanotte, certo che Rachel ormai dormisse, usciva in punta di piedi dalla cameretta e udiva il soffocato: «Ciao ciao, maramao» provenire dalla figurina sotto le coperte; allora doveva rispondere: «A fra poco, bel topo». E, disteso sul letto, accanto alla figura dal respiro lieve, forse addormentata, della donna che amava, guardava i pallidi raggi di una o di tutt’e due le piccole lune di Hebron muoversi lungo la parete scabra e parlava a Dio.

Sol parlava a Dio già da alcuni mesi, prima di rendersene conto. L’idea lo divertiva. I dialoghi non erano affatto preghiere, ma prendevano la forma di monologhi rabbiosi che, appena prima di diventare diatribe, si trasformavano in vigorose discussioni con se stesso. Gli argomenti di quei dibattiti infuocati erano profondi, la posta in gioco era alta, il campo trattato era grande… al punto, capì Sol un giorno, che l’unica persona da rimproverare per simili manchevolezze poteva essere solo Dio stesso. Poiché per Sol l’idea di un dio personale, sveglio la notte a preoccuparsi degli esseri umani e pronto a intromettersi nella vita dei singoli individui, era sempre stata assurda, il pensiero di simili dialoghi lo indusse a dubitare della propria sanità di mente.

Ma i dialoghi continuarono.

Sol voleva sapere come un qualsiasi sitema etico (e tanto meno una religione così indomabile da sopravvivere a qualsiasi male l’umanità le scagliasse contro) potesse derivare dall’ordine di Dio a un uomo di uccidere il proprio figlio. A Sol non importava che l’ordine fosse una prova d’ubbidienza. A dire il vero, l’idea che fosse stata l’ubbidienza a consentire ad Abramo di diventare padre di tutte le tribù d’Israele, era proprio ciò che procurava a Sol accessi d’ira.

Dopo cinquantacinque anni di lavoro sulla storia dei sistemi etici, Sol Weintraub era arrivato a un’unica, incrollabile decisione: ogni rispetto per una divinità, un concetto o un principio universale che poneva l’ubbidienza al di sopra del giusto comportamento nei confronti di un essere umano innocente, era un male.

Allora definisci il termine “innocente”, disse, in tono vagamente divertito e querulo, la voce che Sol associava a queste discussioni.

Un bambino è innocente, pensò Sol; Isacco era innocente. Rachel è innocente.

“Innocente” per il semplice fatto d’essere bambino?

Sì.

E non esiste circostanza in cui il sangue dell’innocente debba essere versato per una causa superiore?

No, pensò Sol, nessuna.

Ma “innocente” non è limitato ai bambini, immagino.

Sol esitò, intuendo una trappola e cercando di scoprire dove il suo invisibile interlocutore volesse andare a parare. Non ci riuscì. No, pensò, “innocente” include altri, oltre i bambini.

Rachel, per esempio? A ventiquattro anni? L’innocente non dovrebbe mai essere sacrificato, a nessuna età?

Esattamente.

Forse è questa, la parte della lezione che Abramo doveva imparare, prima d’essere padre della benedetta fra le nazioni della terra.

Quale lezione?, pensò Sol; quale lezione? Ma nella sua mente la voce era svanita; ora restavano solo i richiami degli uccelli notturni all’esterno e il fievole respiro della moglie al suo fianco.

A cinque anni Rachel era ancora in grado di leggere. Sol non ricordava più quando la bambina avesse imparato: sembrava che avesse sempre saputo leggere. «A quattro anni standard» gli disse Sarai. «Era l’inizio dell’estate… tre mesi dopo il suo compleanno. Facevamo colazione nel campo sopra il college, Rachel guardava il libro di Winnie-the-Pooh e all’improvviso disse: “Sento una voce nella testa”».

Allora Sol ricordò.

E ricordò anche la gioia che lui e Sarai avevano provato nel vedere con quanta facilità Rachel apprendeva, a quattro anni. Se ne ricordò, perché ora si trovavano davanti al rovesciamento di quel processo.

«Papà» disse Rachel, seduta per terra nello studio, tutta presa a colorare disegni. «Quant’è stato, dal compleanno di mamma?»

«Era lunedì» rispose Sol, assorto nella lettura. Il compleanno di Sarai non era ancora arrivato, ma Rachel lo ricordava.

«Lo so. Ma quant’è stato, da allora?»

«Oggi è giovedì» disse Sol. Stava leggendo un lungo trattato talmudico sull’ubbidienza.

«Lo so! Ma quanti giorni?»

Sol posò il libro. «Non sai il nome dei giorni della settimana?» Sul Mondo di Barnard si usava il vecchio calendario.